La recente (e, per la sua dinamica, inaudita) polemica provocata dalla deliberazione del Consiglio dei ministri volta a sottrarre alcune delle numerose competenze via via attribuite all’Anac dalla bulimia legislativa degli ultimi anni (peraltro, more italico, senza dotarla delle strutture e dei mezzi necessari per farvi fronte) ha richiamato l’attenzione sull’effettiva congruenza delle scelte così compiute (persino) rispetto agli scopi dichiarati, risvegliando una voce critica anche presso chi, sino ad oggi, aveva salutato con favore quelle trasformazioni (o deformazioni) istituzionali delle quali l’istituzione dell’Autorità Nazionale Anticorruzione è un ulteriore sintomo.



Vale la pena formulare un paio di rilievi.

Il primo attiene al lessico. Se la corruzione è un fatto di reato — cioè una condotta che viola gravemente i doveri funzionali che incombono sui pubblici amministratori (e, quindi, innanzitutto gli articoli 54 e 98 Cost.) — l’autorità preposta ad accertare e reprimere tali crimini dovrebbe essere quella giudiziaria, ovviamente con le forme, le procedure e i limiti prescritti dalla Costituzione, a partire da quelli riguardanti la formulazione delle fattispecie punitive (che devono essere tassative) per arrivare alle garanzie di cui all’articolo 111 Cost. e alla presunzione di non colpevolezza: si tratta di un acquis degli Stati di diritto, di rilievo tale da aver mosso la Corte costituzionale a reagire con fermezza ad una temuta sua compressione da parte della Corte di Giustizia Ue (è la recentissima vicenda del cosiddetto caso Taricco).



Ma l’Anac sembra rispondere ad una “logica” profondamente diversa, tutta incentrata su un concetto di prevenzione che è andato sempre più ampliandosi e che si pone in contrasto, direi frontale, con i postulati ai quali sono legati i presidi garantistici dei quali si è appena detto: mentre un tempo (che oggi pare molto lontano) gli illeciti di pericolo, con i quali si anticipava la soglia di punibilità, erano considerati deroghe ai principi generali dell’ordinamento e da taluni, non senza ragioni, ritenuti addirittura incompatibili con le norme costituzionali (che, infatti, pur menzionando le misure di sicurezza, non contemplano invece quelle di prevenzione), oggi ci si accomoda ad affidare la “moralità” collettiva — e in particolare dell’apparato pubblico — a nuove forme di autorità, più penetranti di quelle tradizionali, perché, diversamente da esse, legittimate, da un legislatore sempre più incline a dismettere le proprie funzioni, ad intervenire prima e a prescindere dalla commissione di un fatto, indirizzando i comportamenti dei consociati secondo proprie valutazioni, che doppiano e superano quelle già contenute nei disposti normativi.



Ne è un esempio lampante ed estremamente significativo — ecco il secondo rilievo — proprio quella “raccomandazione vincolante” oggetto dello “scandalo” della sottrazione di poteri all’Autorità anticorruzione: questa impartisce consigli, ai quali il funzionario non può sottrarsi, sotto comminatoria di sanzione amministrativa pecuniaria.

Ancora una volta il lessico rivela mutazioni genetiche profonde: gli imperativi ancien régime divengono raccomandazioni o direttive; in luogo dei regolamenti governativi — dei quali l’Esecutivo risponde politicamente alla rappresentanza parlamentare — subentrano le linee-guida dell’Anac (del tutto assolta da ogni rapporto di accountability nei confronti della collettività); le vecchie regole di costume assurgono a divieti penalmente sanzionati (si pensi al cosiddetto politically correct); le leggi, ancorché il loro nome richiami l’esigenza di comprensibilità (e nonostante il gran parlare di trasparenza, che dovrebbe innanzitutto attenere alla lingua) sono intessute di formulazioni labirintiche e non di rado meramente suggestive.

Pare allora fondata l’impressione che il nostro ordinamento statale (sospinto dalle coordinate del sistema europeo, che acutamente Alberto Predieri aveva assimilato a quelle di un diritto apicale metastatuale, in ciò simile alla sharia) vada perdendo i connotati di laicità, sulla scorta di quelle teorie che vorrebbero rimpiazzare la deontologia normativa con la conformità ad un ethos.

Da un lato, declina il ruolo della scrittura, che l’argomentare manipolativo elaborato a partire dal suddetto concetto di conformità (che non è tipico, però, degli ordinamenti laici) mortifica, facendolo retrocedere al rango di una “spia”, di un “segnale” allusivo, che necessita sempre di un completamento per opera di un altro soggetto che sia (o si autoqualifichi) munito di una specifica capacità, per un verso ispettiva (che si riannoda alla suddetta allusione del segno verbale) e, per altro verso, previsionale (in quanto l’opera di completamento possa servire a compierne altra simile in futuro). 

Un modo di procedere che, negando il carattere della sintassi indoeuropea — che è “perifrastica; impone i concetti secondo un ordine logico, formale. Le parole, mutevoli, sfumate, a terminazioni modificabili, sono adatte alle contrapposizioni e alle combinazioni. I tempi verbali sono relativi all’agente, l’ordine delle parole è didattico, analizzato e gerarchizzato” (L. Massignon, Parola data, Milano, 1995, 327) — pur utilizzando (com’è ovvio) gli stessi componenti, parrebbe quasi volerli trattare quali elementi della “sintassi semitica (alla quale nell’area islamica va riportata quella persiana) [che] è gnomica, impone ex abrupto l’idea in un ordine dialettico, intenzionale: parole rigide, con radici fisse, consonantiche, la cui accezione risulta da sfumature vocaliche che stabiliscono la flessione. I tempi verbali sono assoluti, riguardano l’atto puro; l’ordine delle parole è lirico, irregolare, disruptivo” (L. Massignon, op. loc. cit.).

Mentre la tradizione giuridica europea è stata, viceversa, sempre fortemente radicata in un uso attento e rigoroso delle parole, dei loro significati e della loro valenze definitorie e combinatorie nell’ambito tassonmico della logica, imposto dalla grammatica (cfr., ad es., F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, trad. it. di G. Nocera, Firenze, 1968, 176 ss.).

Dall’altro lato, a tali metamorfosi epistemologiche ne corrisponde un’altra, essenziale, sul piano dell’autorità: quella politica, legittimata democraticamente, viene rimpiazzata da forme sapienziali, segnando un regresso verso quei sistemi pontificali che fondano la loro legittimazione sulla affermata (ma recondita) capacità (molto prossima al “carisma”) di evitare alla collettività gli errori indotti da valutazioni e volizioni contingenti, quali sarebbero quelle dei corpi rappresentativi. Di qui il proliferare di élites tecniche, sciolte da vincoli elettivi (che presuppongono, viceversa, quella facoltà di autodeterminazione dei singoli e delle comunità, modernamente considerata oggetto del primo ed essenziale diritto dell’uomo): non a caso l’Europa appare oggi governata (ma in un senso e con modi ben diversi da quelli tipici della democrazia occidentale), in ultima ed indefettibile istanza, dalla Banca Centrale, alla quale, secondo un’altra felice intuizione di Predieri, spetta una funzione di balìa.

Gli effetti di tale evoluzione sono davanti agli occhi di tutti.