L’Eurogruppo in programma a Bruxelles è stato il primo di una nuova fase,  forse di una nuova era. Alla riunione dei 19 ministri finanziari dell’euro ha debuttato il ministro delle Finanze francese Bruno La Maire, appena nominato del neo-presidente Emmanuel Macron. All’ordine del giorno lo sblocco di 7 miliardi di prestiti-aiuto alla Grecia, ma a Bruxelles è andato in scena soprattutto un test complessivo degli umori ed equilibri all’interno del “club euro”: in cui la situazione politica a Parigi è ormai acquisita – e stabilizzata in senso europeista – e quella tedesca sembra sempre più orientata verso una grande coalizione Merkel-4  fra poco più di cento giorni.



Un ulteriore elemento di novità non marginale è giunto giovedì scorso da Mario Draghi,  numero uno della Bce. In una sede extra-europea (Tel Aviv) Draghi ha detto che “la crisi economica è alle spalle”, una presa di posizione non del tutto attesa dagli osservatori. Una lettura tecnica della sua affermazione ha comunque portato molti commenti a prospettare una conclusione del quantitative easing dell’euro meno incerta nei tempi e nei modi. Ma hanno subito prevalso le letture più politiche: dichiarando “missione compiuta” Draghi avrebbe di fatto aperto la sua successione, formalmente in agenda per il 2019. E il primo a prenderlo sul serio è stato il governatore della Bundesbank Jens Weidmann, il grande oppositore dell’espansionismo di Draghi nel consiglio Bce.



Mentre lo Spiegel riferiva già ufficiosamente della candidatura tedesca pronta per il dopo-Draghi, lo stesso Weidmann si è augurato che la Bce mostri “la schiena dritta, senza rinviare la normalizzazione dell’area euro in funzione dei bilanci pubblici di alcuni paesi”. Non poteva essere più chiaro nel tenere sotto pressione Draghi sulle prossime mosse su tassi e acquisto di titoli pubblici nell’eurozona e soprattutto sull’esercizio stesso della leadership a Francoforte nel periodo finale del suo mandato. Tutto questo sarà naturalmente più nell’aria che sul tavoli dell’Eurogruppo, al centro del quale c’è stato comunque un ennesimo confronto fra rigoristi del Nord e paesi deboli del Sud Europa, con un possibile rafforzamento dei primi proprio grazie a Le Maire, pescato nelle file golliste da un Macron molto desideroso in questa fase di riconsolidare l’asse franco-tedesco.



È comunque uno scenario nel quale l’Italia “in disordine” – sul piano dei conti pubblici, della stabilità bancaria e delle prospettive politiche interne – rischia di risultare ancor più debole.  È uno sfondo che può sembrare troppo lontano dietro il caotico dibattito italiano sulle regole elettorali, nell’avvio confuso della campagna per il voto. Eppure la doppia svolta – il disimpegno di Draghi e il rafforzamento del rigorismo nell’eurozona – sono tutt’altro che neutri rispetto lo sbocco dell’impasse politica interna. Un’angolazione fra tante: il leader Pd Matteo Renzi punta a un voto anticipato in autunno, tiene tuttora in mano l’opzione proporzionalista utile a un possibile “governissimo” con Silvio Berlusconi e resta posizionato su una netta critica all’europeismo istituzionale franco-tedesco. Può sembrare paradossale, ma è lo stesso scenario che può portare in Italia a un governo “dei Presidenti”: del Capo dello Stato e soprattutto del numero uno uscente della Bce. Un nuovo governo di salute pubblica, dopo quello che nel 2011 gestì con Mario Monti l’austerity imposta anche da Mario Draghi in Europa, ma difficilmente il copione sarebbe lo stesso: lo lascia prevedere, nel caso, la statura geopolitica di Draghi, più funzionale a inserirsi alla pari nella dialettica in partenza fra Macron e Merkel, sullo sfondo di Brexit, dell’America trumpiana, del movimentismo cinese.

Difficile anche per Renzi, nel caso, far valere un eventuale successo elettorale proporzionalista: difficile che – per i grandi attori politico-finanziari globali – sia sufficiente in Italia un Alexis Tsipras capace di agitare per un paio di settimane le acque in Europa salvo poi firmare sempre a pié di lista le richieste delle varie troike.