Come sempre da quando Donald Trump calca la scena, non contano le parole, né quelle scritte, né quelle pronunciate più o meno a mezza bocca, contano i gesti. Trump che non mette gli auricolari per ascoltare Paolo Gentiloni; Trump che di Taormina apprezza soprattutto i negozi (chissà se ha in mente di costruire un grattacielo al posto del teatro greco?); Trump che sposta rudemente (è successo alla Nato) il premier del Montenegro per raggiungere la prima fila; e Trump che alla fine chiude l’estenuante discussione sul clima e gli accordi di Parigi a modo suo: “Ok, deciderò la prossima settimana”.
Angela Merkel si dichiara grandemente insoddisfatta e lascia il summit senza tenere la conferenza stampa finale. Lo stesso fa il presidente americano, il quale in fondo non aveva molto da dire. Il G7 presieduto dall’Italia è stato una débacle, inutile negarlo, non per colpa di Gentiloni e, anche se sembra paradossale dirlo, nemmeno per colpa di Trump. Un diverso atteggiamento del presidente americano sarebbe stato utile e certamente apprezzato, ma è fatto così e pensa che il primato americano si riconquista facendo il bullo. No, il problema è che si sono accavallati problemi, tali e tanti, che i sette grandi paesi industrializzati non sono in grado di gestire.
Prendiamo l’immigrazione, la questione che più stava a cuore all’Italia, dove in apparenza è stato raggiunto un compromesso. Il comunicato finale riconosce che si tratta di un problema globale, ma la priorità in questa fase va alla difesa dei confini. Gentiloni e la Merkel ci sono rimasti male. Ma non Theresa May, che cavalca proprio questo punto per vincere le elezioni. E siamo sicuri che non lo apprezzi Emmanuel Macron il quale va al voto per il parlamento sotto la pressione di una Marine Le Pen sconfitta, ma non del tutto doma? Quanto a Shinzo Abe, per lui non è un problema, il Giappone è una fortezza chiusa.
Altro compromesso (apparente) sugli scambi. È stata riconosciuta formalmente l’esigenza di combattere il protezionismo, tuttavia la parola chiave è reciprocità, un criterio corretto quanto ambiguo che può coprire tutto, dal commercio equo e solidale alla guerra dei dazi. Trump che se la prende con la Mercedes e con i tedeschi davvero “cattivi” nel rubare posti di lavoro agli americani, la dice lunga su come intendono essere reciproci non solo alla Casa Bianca, ma al Congresso degli Stati Uniti (anche se a Detroit non sono più in grado di fare automobili come a Stoccarda e tutti lo sanno).
“L’impegno contro il terrorismo è il successo più grande”, secondo Gentiloni. Un documento in 15 punti sostiene cose giuste, anche non generiche, ma tutte da verificare in concreto. La questione chiave riguarda il coordinamento dei servizi segreti e lo scambio di informazioni; dopo quello che è accaduto tra Stati Uniti e Regno Unito, cioè i paesi tra i quali la collaborazione dovrebbe essere più stretta, chi è disposto a credere a promesse scritte sulla carta? Già a Bruxelles, del resto, il vertice della Nato si era risolto in chiacchere con un Trump che, dopo aver picchiato (giustamente) sui paesi alleati perché non spendono abbastanza, ha evitato accuratamente la formula “uno per tutti, tutti per uno” che è alla base dell’articolo 5. America first, anche in questo caso. Sulla Russia l’inquilino della Casa Bianca ha abbassato le penne accettando l’idea di nuove sanzioni, ma per forza di cose con il Russiagate che incombe e il genero Jared Kushner sulla graticola del Congresso.
E veniamo al clima dove si è consumata la rottura più grave. Qui si può anche dire che Trump è rimasto isolato, però gli accordi di Parigi non vanno da nessuna parte senza gli americani. Gentiloni che ama il bicchiere mezzo pieno (un po’ per il suo carattere, un po’ perché glielo impone il ruolo di ospite), sostiene che gli Usa decideranno davvero la prossima settimana e lo faranno nel migliore dei modi. Speriamo, anche se in questo caso il pessimismo dell’intelligenza prevale sull’ottimismo della volontà.
Doveva essere il G7 più difficile e lo è stato. Il governo italiano lo ha gestito come ha potuto e non si può fargli colpa del fallimento, anche se è rimasto a mani vuote e non ha ottenuto nessun sostegno nel far fronte alla marea migratoria. E questo peserà anche alle prossime elezioni. Non solo, emerge chiaramente il dilemma politico-diplomatico in cui si trova l’Italia. Finora tutti i governi hanno praticato la tattica andreottiana dei due forni (anche quelli che rifiutavano di ammetterlo o quelli che facevano finta di niente), barcamenandosi tra Washington e Berlino. Adesso su molte questioni chiave (clima, immigrati, protezionismo) bisogna scegliere. Roma spera ancora di fare da mediatrice. A Taormina si è visto che non funziona.