C’è un fantasma che si aggira per i palazzi romani. E’ quello dell’esercizio provvisorio del bilancio dello Stato, che da quegli stessi palazzi era scomparso esattamente trent’anni fa. Correva l’anno 1987, a Palazzo Chigi sedeva Giovanni Goria, la cui debolezza assomiglia a quella odierna di Paolo Gentiloni. Allora la politica era dominata dal braccio di ferro fra la Dc di De Mita e il Psi di Craxi, con i comunisti di Natta sullo sfondo. Oggi, invece, all’esercizio provvisorio rischia di portarci l’accordo a tre fra Renzi, Grillo e Berlusconi, che sembra farsi sempre più stretto intorno alla legge elettorale.
Allora l’Europa esisteva, ma non incombeva come oggi sulla nostra vita istituzionale. Vista dal Quirinale questa è la differenza chiave, che fa temere il peggio. Ufficialmente Mattarella tace, e non sembra intenzionato a compiere passi formali, dopo il comunicato del 26 aprile scorso, quando chiese di accelerare i tempi dell’approvazione della legge elettorale. Ma quello di mettere al sicuro i conti pubblici è un mantra ripetuto troppo volte per non immaginare che in questi giorni la sua moral suasion si stia esercitando lontano dai riflettori per richiamare la politica al senso di responsabilità.
Difficile immaginare che il capo dello Stato abbia un pensiero distante da quello dell’ex premier Enrico Letta, secondo cui “precipitarsi al voto sarebbe sbagliato e incomprensibile”, perché si darebbe all’Europa l’idea di un paese turbolento e ancora instabile. Una lettura diametralmente opposta al “fronte della fretta”, dove la road map più sensata viene rappresentata da un altro politico del Pd considerato vicino a Mattarella come Dario Franceschini: in caso di voto anticipato il governo uscente prepara la manovra e quello entrante la porta a compimento. Per questo fronte bisogna aprire i seggi in contemporanea o quasi con il voto tedesco, fissato per il 24 settembre.
Nell’entourage presidenziale si respira scetticismo, e non si nasconde la speranza che si arrivi al varo della legge di stabilità prima dello scioglimento delle Camere, con il voto possibile a inizio 2018, ad esempio febbraio. Sarebbe la soluzione ottimale, con un Gentiloni nella pienezza dei poteri seduto al tavolo europeo. Lo scenario opposto, di Merkel e Macron che avviano la discussione sull’Europa di domani con l’Italia in esercizio provvisorio, fa venire i brividi.
Nervi saldi, però, perché c’è scetticismo sui tempi. Quelli parlamentari, anzitutto, visto che è ottimistico immaginare che sia rispettata la tabella di marcia targata Brunetta, secondo cui la legge elettorale può vedere la luce entro il 7 luglio. Mattarella aspetta, convinto che quello sia il primo nodo da sciogliere.
Ma, anche se il miracolo di partorire a spron battuto la legge elettorale si compisse, resterebbe poi il nodo dei collegi elettorali da ridisegnare, visto che non ci sono mappe precedenti a cui rifarsi. Ad esempio il “Mattarellum” prevedeva 232 collegi al Senato e 475 alla Camera, mentre per il sistema tedesco ne servono rispettivamente circa 150 e circa 300. Anche con l’aiuto dei computer, la riscrittura delle mappe elettorali non si può liquidare in pochi giorni. Votare a settembre sembra quindi francamente impossibile. Le prime date tecnicamente utili sono nella seconda metà di ottobre. Non il 22, data per cui sono già stati fissati i referendum lombardo e veneto sull’autonomia speciale. Nelle ultime ore ha preso quota l’ipotesi del 29 ottobre.
Ma la speranza che qualcosa rallenti la corsa verso il voto in autunno non è ancora morta, dalle parti del Quirinale. Se mai, dal 1946 a oggi, si è votato nella seconda metà dell’anno per il rinnovo del parlamento una ragione ci sarà. E sarebbe più prudente evitare di vederne gli effetti. Lo scivolone delle borse lascia capire che la speculazione internazionale è in agguato. Non come nel 2011, ma quasi.