Oggi i francesi vanno alle urne per scegliere l’ottavo presidente della loro Quinta Repubblica. Dovranno decidere tra il candidato di En Marche!, Emmanuel Macron, appoggiato dall’establishment europeo, e la nazionalista Marine Le Pen. Il favorito Macron potrebbe essere il primo presidente di una nuova repubblica, dato che il vecchio bipartitismo di gollisti e socialisti sembra ormai appartenere al passato. Il Front National ha accusato Macron di rappresentare quella “globalizzazione deregolamentata” che appare oggi, a tutti gli effetti, il vento nelle vele dei cosiddetti “populisti” sparsi ovunque in Europa, dall’Olanda alla Francia e che, traducendosi in “austerità”, ha prodotto fratture sociali in tutta l’Unione Europea. Alla quale, in Italia e altrove, si continua a rimproverare un deficit di politica. Un errore, spiega il costituzionalista Roberto Bin, perché è proprio sul mercato che è nata l’Unione, non su un progetto politico. Il deficit politico è originario: “i Trattati non parlano di uomini, parlano dei mercati”.



Professore, le cito i più recenti fronti caldi dell’Unione Europea. Ue e Brexit.

E’ un capitolo che, francamente, fa sorridere. Non riesco a immaginare come la Brexit possa essere attuata: entrare nell’Ue ha una sua procedura, la lunga procedura che hanno seguito tutti i paesi dell’est Europa per farne parte. Vuol dire anni di riforme legislative per recepire il cosiddetto acquis communautaire, l’insieme di regole che istituiscono il mercato europeo. Uscire dall’Unione che cosa comporta? Che quelle regole vengono abbandonate, vengono sostituite, vengono riscritte? Se la Ue le modificherà, lo Stato che è uscito farà nuovi accordi generali?



Non è ciò che si tratta di negoziare alla modica cifra di 100 miliardi di euro?

Non è solo una questione di soldi, ma di come si può staccare un pezzo di realtà da un ordinamento giuridico, separandolo però solo fino ad un certo punto, senza arrivare ad intaccare le regole del mercato unico. Norvegia e Svizzera non sono entrate nell’Ue, hanno con essa degli accordi su come dinamizzare il loro mercato, ma sono mercati abbastanza piccoli; un mercato come quello britannico non è una cosa da poco. Bisognerà regolare tutte le voci che formano il mercato europeo. 

Ue ed elezioni francesi.



Con un’espressione francese direi: déjà vu. Mentre il Regno Unito ha sempre avuto una posizione tradizionalmente avversa alla Ue, quella della Francia è stata storicamente altalenante, basti pensare a De Gaulle e in tempi più recenti alla bocciatura della cosiddetta costituzione europea (con referendum nel 2005, ndr). Le dirò di più: non credo che la Francia, anche se vincesse Marine Le Pen, abbia intenzione di uscire dall’Unione. Se accadesse, la Ue sarebbe finita, ma non sarebbe un’obiettivo sensato nemmeno per la Francia, perché l’Ue è il blocco commerciale più importante del mondo. 

Ue e Grecia.

Tutti hanno capito in Europa che la Grecia non è facilmente recuperabile, e  che tutto sommato la Ue andrà avanti anche con la Grecia che non sta nei parametri. Il problema non è la Grecia ma l’Italia, la Francia, il Portogallo e la Spagna, l’altra “metà” dell’Europa. 

Come andrebbe affrontato?

Cambiando i parametri e la logica di Maastricht. Non l’ha prescritto il medico che l’Europa sia allineata sulla politica economica di un pezzo di classe politica tedesca, ovvero l’establishment finanziario ed economico un po’ imbecille che ha governato l’Europa in questi anni. 

Ma il fatto che il passo dell’Europa sia allineato all’economia tedesca per mezzo dell’euro, non è insito nella genesi della moneta unica?

A mio modo di vedere questa linea politica non piace neanche ai tedeschi. Se la Merkel perderà le elezioni non sarà per il colore delle sue giacche, ma perché i tedeschi si sono stancati di una politica economica che sta impoverendo i Länder dell’ex Ddr.

Di quale politica economica stiamo parlando?

Di quella che fa la grande fortuna del capitale finanziario. In un paese che ha inventato la socialdemocrazia, il fatto che tutto il potere sia nelle mani del capitale finanziario non può essere la strada maestra.

Ue e nuovo corso americano.

E’ ancora da capire da che parte andrà. Tutti guardano all’America di Trump con molti punti di domanda. Finché Trump va in giro a chiedere soldi per finanziare la Nato, credo che il nuovo corso americano sarà disastroso. All’America tutto sommato non conviene avere un’Europa debole, ma nemmeno un’Europa troppo forte. Mi pare comunque che Trump sia abbastanza inattendibile perché gli europei smettano di preoccuparsi di cosa pensa il presidente americano di loro. 

A proposito di rapporti transatlantici. Il negoziato sul Ttip non è stato una bella pagina da ricordare.

No, infatti. Non abbiamo mai saputo bene che cosa contenesse e questo la dice lunga sul problema europeo oggi. Perché secondo lei il parlamento europeo non è stato messo pienamente al corrente delle trattative? Il sospetto, e dunque la certezza, è che siano state appannaggio degli interessi economici forti europei. E’ questo il vero problema dell’Unione Europea. 

L’idea con la quale in Italia per lo più si guarda all’Unione Europea è che la Ue sia l’apparato di una élite di tecnocrati che hanno mortificato e avvilito la grande idea originaria, rimasta senza più linfa. Ma è così?

No. Il deficit politico è originario: l’Europa è nata in nome della tecnocrazia, non c’è mai stato alcun vertice democratico spodestato semplicemente perché un vertice democratico non c’è mai stato. Basta leggere la carte: non si voleva l’unione politica, ne è uscita un’Europa tecnocratica, fondata sul mercato, e nella quale il mercato è stato gestito con criteri non politici. 

Criteri non politici e dunque quali altri?

Criteri interni al mercato. E poiché il mercato è fatto da imprese, le imprese più forti hanno dominato il mercato. Si ricorda la marmitta catalitica? E’ stata rinviata negli anni finché Volkswagen e altri non hanno deciso che era il momento di vararla. Questo è il problema: noi siamo in mano a poteri finanziari, non a tecnocrati, questi se mai sono la conseguenza. 

La Ue è un organismo democratico?

No. Non lo è perché in Europa non c’è la base della democrazia, che è il conflitto sociale. In Europa non esiste conflitto sociale; gli interessi finanziari ne sono depurati per definizione. Ma alla base di tutto il costituzionalismo del secolo scorso stanno proprio i conflitti sociali. Sono i conflitti sociali ad avere trovato un punto di sintesi e di elaborazione all’interno dell’Assemblea costituente: i politici hanno scritto la nostra Costituzione mediando tra questi opposti interessi. Questo è precisamente il compito della politica: rispondere ai conflitti sciali, conciliare, trovare mediazione. L’Europa mirata ad aprire i mercati è una Europa che fa gli interessi dei potentati economici.

La nostra Costituzione sta alla nostra Repubblica come i Trattati stanno all’Unione Europea?

Giusto richiamo. Sì e no: la funzione è la stessa, perché la Corte di Giustizia parla dei Trattati come della “costituzione” europea fin dagli anni Sessanta. Ma i Trattati non parlano di uomini, parlano dei mercati. E’ sul mercato che è nata l’Unione Europea, non su un progetto politico. Il benessere dei cittadini alla Ue non interessa: se così non fosse, Bruxelles manderebbe i commissari ad Atene a vedere la miseria che c’è per le strade.

Quali considerazioni politiche trae da questo quadro?

La prima è che dell’Unione Europea non si può fare a meno. Un discorso a parte meriterebbe l’euro, che è un’altra cosa ancora. La seconda considerazione è che l’unica modo sensato per stare in Europa è contestare la sua attuale base costituzionale, fondata sul libero mercato come se questo fosse una cosa in se stessa e non una costruzione artificiale del diritto e cioè di scelte politiche.

Ma questo stato di cose si può cambiare?

E’ solo questione di politica. Se le elezioni nei nostri paesi andassero in modo non del tutto demenziale, la politica europea si potrebbe cambiare. L’Unione ha attraversato diverse crisi, ma le ha sempre superate. E sa perché? Perché l’integrazione europea è destinata ad avere successo. 

Ne è sicuro?

Sì, perché non ci sono alternative nello spazio conteso tra Cina, Russia, Stati Uniti e non solo. In questo contesto cosa farebbero da solo il Belgio, l’Austria o l’Italia? Ma la domanda era già emersa negli anni Cinquanta, perché di fronte alla produzione di grano sovietica e statunitense i campi dei contadini europei non avevano rappresentanza ed erano privi di mercato. La Gran Bretagna se ne va? E’ una grande occasione politica. Se poi andasse via anche qualche finanziere tedesco reazionario, non sarebbe male.

(Federico Ferraù)