Il voto sulla legge elettorale ha fortunatamente dimostrato che la politica non può avere una circolazione extracorporea rispetto alle istituzioni. Quattro signori, cittadini, leader — chiamateli  come volete — che non siedono in Parlamento, Renzi Berlusconi Grillo Salvini, avevano deciso una legge elettorale che, se fosse passata, avrebbe significato la fine della rilevanza, già scarsa, delle nostre aule parlamentari, a confermare una linea che da tempo impegna il peggio della politica italiana: portare la politica e il governo fuori dalla istituzioni previste dalla Costituzione, Camera e Senato. Non è bastato il clamoroso risultato a difesa di questa previsione costituzionale del 4 dicembre. Ci hanno riprovato. Fortunatamente l’infima attendibilità politica di un puro patto di potere non ha retto al voto dell’aula. 



Il “tedeschellum” risciacquato in Arno era una pessima legge. Come da ultimo ha più che fatto notare l’ex presidente Napolitano, non certo il meno interessato a mettere mano agli inceppi funzionali delle nostre istituzioni. 

Le leggi elettorali non sono leggi costituzionali, e tuttavia sono leggi di “rango” costituzionale perché sono lo strumento per regolare l’esercizio della sovranità popolare nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione. Gli obiettivi di una legge elettorale in linea con questa previsione costituzionale dovrebbero essere la governabilità (tendenzialmente favorita da un sistema maggioritario) e la rappresentatività (tendenzialmente favorita da un sistema proporzionale). Una buona legge elettorale dovrebbe bilanciare, in modo attendibile, queste due esigenze, per ridare oltretutto credibilità ad un sistema politico in crisi. 



E invece che cosa è stato proposto all’esame del parlamento? Una legge elettorale che non garantisce (ne parlo all’indicativo presente perché uno schema simile non è detto che non torni in mente ai soliti noti) né rappresentatività, né governabilità. 

Non garantisce governabilità perché non ha alcuna correzione maggioritaria. Una fattispecie che nel contesto politico italiano non fa prevedere — allo stato dei fatti — la costruzione della governabilità, che le urne non possono dare direttamente, neppure in un successivo passaggio parlamentare, salvo intese paradossali tra forze politiche l’una alternativa all’altra con l’ausilio di truppe di trasformisti in uscita dai gruppi parlamentari lasciati fuori dall’accordo di governo. Non garantisce la rappresentatività perché con la soglia del 5 per cento questa legge elettorale proporzionale mira a tener fuori dal parlamento di fatto il 20 per cento almeno di chi si recherà alle urne, a favore di quattro forze politiche: Pd, M5s, FI, Lega. 



In sostanza, tra astenuti ed esclusi per il non raggiungimento della soglia del 5 per cento, avremo un parlamento che se va bene sarà “rappresentativo” del 45-50 per cento degli italiani, e se una rappresentanza così determinata sarà capace di esprimere un governo con la metà +1 degli eletti, avremo un governo espressione del 25 per cento degli italiani. Si ritorna al punto di caduta dell’Italicum, anche se lì per la correzione maggioritaria sarebbe potuto bastare anche un solo partito a intestarsi questo 25 per cento. 

Insomma il “tedeschellum” era legge fatta per mettere il sistema politico, cioè la sovranità, nelle mani dei gruppi dirigenti di quattro forze politiche, sostanzialmente di quattro persone: Renzi, Grillo, Berlusconi, Salvini. Una cosa ai limiti del “golpe”. 

Finita come è finita, per altro, in un modo da impeachment costituzionale, se dovesse essere immaginato un dolo, e non come si spera l’errore “tecnico”. Cioè in un voto segreto che da segreto è diventato palese per un “disguido” sul tabellone. Un unicum a mia memoria, che se dovesse ripetersi sarebbe la fine della libertà di mandato del parlamentare. La fine effettiva della democrazia, e della libertà. Un punto su cui sarebbe stato opportuno sentire qualche voce autorevole, e non i 5 Stelle a gridare “libertà, libertà” con la mano sinistra mentre con la mano destra avevano contribuito a portare in aula una legge elettorale che minava alle radici le indicazioni costituzionali sull’appartenenza al popolo della sovranità.

Ma è andata così. Ora cosa fare per non andare alle urne con la furbata di profittare della bocciatura del “tedeschellum” (forse autoaffondato dai suoi principali estensori, con un occhio alle alleanze politiche che si stavano attrezzando per contrastarne gli effetti nelle urne e ai sondaggi, che non avrebbero più consentito a Renzi di puntare, in accordo con Berlusconi, a Palazzo Chigi) per riproporre lo stesso tentativo con qualche aggiustamento con decreto del Consultellum, la legge elettorale di risulta uscita dalla sentenza della Corte?

C’è un solo modo, se c’è moralità politica democratica, a mio avviso. E cioè rispettare le indicazioni del voto larghissimamente maggioritario del 4 dicembre, dove gli italiani hanno votato a favore del mantenimento della democrazia parlamentare per determinare la governabilità (i governi si fanno in parlamento, e non la sera stessa delle urne) e del suo correlato spessore rappresentativo (gli eletti li scelgono gli elettori).

Si può fare. Ci vuole una legge elettorale che prenda atto che non è possibile imbragare in un maggioritario forzato e forzoso un quadro politico proporzionale, e quindi l’impianto può essere solo proporzionale senza tentare di escludere dalla rappresentanza quote consistenti dell’elettorato. Cioè qualsiasi correzione maggioritaria e qualsiasi soglia di accesso devono avere una ragionevole proporzionalità, se ci si vuole ricorrere. E per scegliere gli eletti, volendo evitare i rischi delle preferenze (che se ci dovessero essere dovrebbero essere per tutti, capilista inclusi), si deve ricorrere ai collegi uninominali ripartiti su un collegio unico nazionale in base alla percentuale raggiunta. Il che significa che chiunque, anche un ministro e un ex premier può perdere il suo collegio, cioè può essere bocciato nelle urne, se nel suo partito altri hanno fatto meglio di lui in altri collegi. 

Questa soluzione è il minimo sindacale perché i leader politici non si eleggano da soli mettendosi nelle liste a danno dei loro peones e soprattutto a scorno dei cittadini. Negli ultimi anni non hanno fatto granché per meritare questa franchigia. Vanterie a parte mostrino, tutti, il loro coraggio: partecipino finalmente ad un “concorso” elettorale che possono anche “personalmente” perdere, senza, male che vada, far perdere solo il loro partito. E il Paese.