Ritorno al bipolarismo. E’ questa la tendenza — secondo molti — che emergerebbe dalla prima tornata delle elezioni amministrative del giugno 2017. Sullo sfondo della marginalità del Movimento 5 Stelle in queste elezioni, si sottolinea che al ballottaggio vanno prevalentemente centro-destra e centro-sinistra, laddove l’uno o l’altro siano il risultato di larghe alleanze. E’ una constatazione fondata. Ma si può proiettare questo risultato su scala nazionale?



Anzitutto va ricordato che le elezioni comunali si svolgono sulla base di una legge del 1993 fortemente maggioritaria e personalizzante. E’ una legge che ha mostrato di funzionare e che appare ancora vitale (malgrado alcuni limiti, come quello di favorire una “dittatura” dei sindaci che svuota i consigli comunali). Ma questo impianto non è mai stato esteso a livello nazionale: non è mai stata varata una legge per eleggere il “sindaco d’Italia”: il nostro paese infatti è rimasto una repubblica parlamentare e non presidenziale.  E i correttivi in senso maggioritario del Mattarellum e del Porcellum sono riusciti solo in parte ad imporre un bipolarismo non solo elettorale ma anche politico, che ha raggiunto la sua massima intensità solo quando la contrapposizione berlusconismo-antiberlusconismo è stata dominante. Ma dal 2011 Berlusconi non è più il centro del sistema e nel 2013 — malgrado una legge elettorale maggioritaria — il panorama elettorale nazionale è diventato tripolare. 



Da allora la situazione non è sostanzialmente cambiata: anche in presenza di risultati modesti a livello locale (con l’eccezione di Roma e Torino nel 2016, ma si tratta appunto di un’eccezione) i sondaggi continuano ad attribuire molti consensi ai 5 Stelle sul piano nazionale. E la presenza di molte liste civiche in queste elezioni amministrative rafforza sensazioni di diffusa frammentazione politica e di debolezza dei grandi partiti. Dopo i ballottaggi, si farà il bilancio del numero di sindaci ottenuto dal centro-destra o dal centro-sinistra. Ma nessuno dei due schieramenti potrà parlare di vittoria politica. 



Ci sono motivi di fondo per cui la situazione politica nazionale continua a non cambiare nei suoi termini essenziali. Le persistenti fortune dei grillini sono legate a sfiducia negli altri partiti più che ad una capacità di governo di cui non hanno ancora dato prove convincenti e sono alimentate da componenti populiste così diffuse da contagiare persino altre formazioni e altri leader. E’ difficile che il quadro nazionale cambi senza il coraggio di una chiara alternativa al populismo. Ed è singolare che nell’anno in cui Macron ha sconvolto il panorama politico francese con una forte opzione europeista e in cui la politica inglese non riesce a riprendersi dall’esito del referendum sulla Brexit, in Italia il tema europeo resti sullo sfondo. 

Da noi sembra prevalere un ripiegamento provincialistico, cui non sfuggono neanche molte discussioni sui risultati delle elezioni amministrative. Come si può ragionare di una possibile coalizione di centro-destra dimenticando che le sue due componenti più importanti hanno posizioni antitetiche sull’Europa e di una eventuale coalizione di centro-sinistra ignorando che al suo interno si affronta spesso il tema Europa in modo strumentale e confuso? In assenza di coalizioni fondate su principi chiari e programmi condivisi è logico che ogni partito persegua il suo successo e che si cerchi una legge (proporzionale o maggioritaria) in grado di valorizzare le singole liste. Ma in questo modo non si va lontano: finché c’è una presenza come quella pentastellata nessun partito può perseguire una vocazione maggioritaria con fondate possibilità di successo. La situazione italiana, insomma, è descrivibile come un circolo vizioso. Senza coraggio morale e innovazione politica è difficile che se ne possa uscire.