Pisapia manca di realismo, ma la proposta di Prodi è sensata. Renzi invece deve aprire di più il partito al confronto. Per Luciano Violante, uomo di sinistra, giurista ed ex presidente della Camera, la fine del patto a quattro sulla legge elettorale potrebbe portare a sviluppi interessanti: molto dipenderà da come andranno i ballottaggi per l’elezione dei sindaci. “Se ci fosse un vincitore assoluto scatterebbe una voglia di imposizione. Meglio sarebbe un risultato equilibrato. E lo dico contro il mio desiderio”. A quel punto si potrebbe correggere il Mattarellum, “la legge migliore che abbiamo avuto”.
Presidente Violante, le comunali mettono di fronte a una realtà: al secondo turno gli elettori non voteranno due partiti, ma due coalizioni. Sembra l’ennesimo schiaffo al bipartitismo.
Farei una premessa. Il partito classico, caratterizzato da una visione globale del mondo è venuto meno; al suo posto oggi ci sono partiti definiti da visioni specifiche, multiple, su singoli problemi. L’alleanza tra forze politiche consente di coprire più campi.
E spiega la preferenza degli elettori.
Sì, perché risulta più attrattiva per il consenso dei cittadini di quanto non sia il partito singolo. Per il Pd ha voluto dire allearsi con molte liste civiche, qualche volta, come a Genova, anche con chi è uscito dal partito. Per il centrodestra ha significato aumentare l’appeal di liste che da sole sarebbero state meno espansive.
Non è stato così per il Movimento 5 stelle.
E’ a suo modo una conferma di quanto ho detto, anche se nel suo caso intervengono altri fattori. A mio avviso una parte rilevante del suo elettorato è rimasta disorientata dal dialogo sulla legge elettorale con Pd, Forza Italia e Lega. Per me è stato un fatto positivo. Per altri no: se questi partiti erano brutti e cattivi, perché farci un patto?
I candidati Pd andranno ai ballottaggi all’interno di raggruppamenti che assomigliano molto di più a quello che dice di volere Pisapia, non Renzi. Non è il de profundis per la “vocazione maggioritaria” che il segretario del Pd ancora difende?
In questo modo lei legge la vocazione maggioritaria solo ed esclusivamente in termini di risultato elettorale, di ricerca del 51 per cento e basta. La vocazione maggioritaria non è un tema elettorale. Come emerge dal manifesto dei valori del Pd, ha a che fare con la definizione di un obiettivo, di una visione del mondo, di un’identità. Il Mattarellum permetteva anche la versione elettorale della visione politica. In quel sistema l’interrogativo era: presentarsi in coalizione con altri o andare da soli? Con i tre quarti dei parlamentari eletti in collegi uninominali relativamente piccoli, la vocazione maggioritaria aveva un senso.
Anche il contesto è diverso, lei dice.
Sì, perché allora due partiti la facevano da padrone, Ds-Pd da una parte e Forza Italia dall’altra. Adesso la situazione è diversa perché la Lega in molte zone del paese è più forte di FI, c’è M5s, c’è il Pd e alla sua sinistra un gruppo di forze che potrebbero allearsi. Il maggioritario funziona in un contesto politico egemonizzato da due grandi partiti. Se ci sono tre forze più o meno equivalenti, come oggi, vuol dire che una di esse rimane fuori dal Parlamento anche se pesa molto. Per questo vedo una tendenza ripetuta al proporzionale.
Che non ha però la sua simpatia. Perché?
Perché è il sistema, mi si passi il termine, che genera ipocrisie. Ciascuno dice cose che non farà e fa cose che non dirà. Non garantisce la governabilità, è sbilanciato sulla rappresentanza e per questo induce il massimo di menzogna possibile.
Il Mattarellum invece?
La legge Mattarella era un legge tendenzialmente maggioritaria che con qualche correzione potrebbe essere validissima anche oggi.
Oggi Renzi getta ponti a sinistra, non si sa con quanta sincerità perché vuole comandare. Pisapia dice di essere disponibile, ma per lui dev’essere un terzo ad unire: Prodi. A che cosa stiamo assistendo?
Ad un intreccio di imbarazzi. Pisapia sa bene che è suo interesse fare un’intesa con il Pd, però i suoi compagni di viaggio non la vogliono, alcuni poi lo inducono ad alzare la posta il più possibile. Ci sono forze che non sopportano la sfida e la fatica del governo, preferiscono l’utopia. Nei tempi brevi o brevissimi è più redditizia della responsabilità.
A patto che questa non diventi doppiezza, come fu per il Pci.
E’ vero: antagonisti nella società e negoziatori in Parlamento, con la Dc. Tanto che la maggior parte delle leggi erano concordate, passavano con il voto Dc e il nostri voto o la nostra astensione. I radicali denunciarono la doppiezza; ma si trattava di una logica conseguenza dello stato delle cose. Occorreva porre limiti al conflitto parlamentare per non trascinare la Repubblica nel girone degli scontri senza fine, come purtroppo accadde oggi. Nel contempo dovevi presentare alla società i tuoi grandi obbiettivi strategici all’interno di un grande racconto della nazione che ignorava questa ambivalenza.
A proposito di utopia. Lega e M5s ne sono immuni?
Tutt’altro. Prendiamo Lega ed M5s in tempi diversi: prima di avere responsabilità di governo erano vittime dell’utopia. Quando si comincia a governare è più difficile sostenere posizioni radicali. Occorre saper superare la contraddizione.
Affidandosi al volto presentabilissimo e collaudato di Prodi, Pisapia non ripropone uno schema vecchio?
Secondo me no. E uno dei pochi leader che la sinistra, quella che si colloca tra il centro progressista e la sinistra riformatrice, riconosce come punto di riferimento. E’ una mossa intelligente. Ma mi pare che Prodi per ora declini gli inviti.
Forse perché il suo primo governo è caduto per colpa di D’Alema?
Non è così. Io ero presidente della Camera e ho vissuto quella crisi minuto per minuto. D’Alema fece di tutto perché Prodi non cadesse, quel giorno (9 ottobre 1998, ndr). Insistette personalmente nei confronti di alcuni di quei deputati determinati a sfiduciare Prodi, per far loro cambiare idea. Non ci riuscì, se non in un caso.
L’irrealismo che si respira intorno a Pisapia sembra esserci anche dalle parti di Renzi. Secondo l’ex premier è ancora e soltanto il Pd il soggetto capace di aggregare.
Mi pare che stia cambiando posizione. Nel selezionare il gruppo dirigente del Pd, Renzi sinora non si è ispirato al criterio della rappresentanza, ma della somiglianza. Con la prima il leader crea intorno a sé persone che portano sensibilità diverse, aprendo il partito al confronto e all’aggregazione. Con la seconda contano solo quelli che la pensano come lui. E non si dialoga.
Se Renzi persiste?
Sarebbe la stessa posizione assunta durante l’approvazione della legge di riforma costituzionale. Anche l’esito sarebbe lo stesso.
Il patto a quattro sulla legge elettorale è andato a monte. Come si evolverà questa partita?
Io quell’intesa non la vedo tramontata del tutto. Attraverso un confronto lineare si possono rimuovere i punti di dissenso, fare una discussione seria e ritrovare un punto di equilibrio. Se una legge elettorale deve avere la massima condivisione possibile è necessario che gli avversari si parlino. L’alternativa sarebbe fare una legge di alcuni contro gli altri; ma se quella condivisa non è passata, figuriamoci se può passare una legge imposta… C’è però un altro inconveniente.
Quale?
Una legge elettorale fatta negli ultimi mesi della legislatura rischia di essere troppo condizionata da interessi particolari, perché i leader non pensano alla stabilità dei governi della Repubblica ma a quanti deputati e senatori porteranno in aula dopo le urne. Molto dipenderà da come vanno le elezioni dei sindaci.
E perché?
Se ci fosse un vincitore assoluto scatterebbe una voglia di imposizione. Meglio sarebbe un risultato equilibrato. Lo dico contro il mio desiderio.
Allora la via obbligata è il Consultellum?
Meglio sarebbe la legge Mattarella, con qualche ritocco. Oppure riprendere l’ultima versione del testo Fiano, con una conduzione parlamentare più avveduta.
Da dove cominciare?
Da un esame il più lucido possibile della situazione. Poi, serve un esercizio di intelligenza, di pazienza e di duttilità politica.
Occorrono persone in grado di farlo.
Bisogna creare le condizioni perché le qualità emergano. Le sconfitte servono a questo.
(Federico Ferraù)