“Il direttore Calabresi non ha accettato la mia smentita e mi ha accusato di aver dichiarato il falso, dandomi pubblicamente del bugiardo. Io ho una parola sola e la ribadisco. Non ho mai parlato con Matteo Salvini. Ed è intollerabile che la mia onorabilità venga messa in discussione in prima pagina su un quotidiano nazionale senza portare uno straccio di prova”. 



Lo dice Davide Casaleggio, in un video pubblicato sul suo profilo Facebook e rilanciato dal blog di Beppe Grillo. “Io non voglio sapere le fonti di Repubblica e nessuno glielo ha chiesto. Io voglio che Repubblica pubblichi tutti i dettagli su questo fantomatico incontro, visto che Calabresi afferma di avere delle ‘ottime fonti’. Finora — insiste il Ceo della Casaleggio Associati — hanno scritto che ‘l’incontro si è svolto a Milano una decina di giorni fa prima che la trattativa sulla legge elettorale fallisse’. E’ un po’ pochino. Ci dica invece quando è stato fatto l’incontro e dove si è svolto: due ‘ottime fonti’ dovrebbero saperlo. Venga pubblicato il luogo preciso, il giorno preciso e l’ora precisa. Io pubblicherò la mia agenda personale e dimostrerò a tutti dove mi trovavo e cosa facevo quel giorno, se necessario con l’ausilio di testimoni”. “Se sarà dimostrato, e sarà dimostrato, che io il giorno indicato ho fatto altro, allora credo che coerentemente il direttore Calabresi dovrà immediatamente dimettersi. Se il direttore Calabresi invece lancia il sasso ma nasconde la mano, e si rifiuta di pubblicare la data precisa dell’incontro allora prenderemo atto del fatto che si sono inventati tutto di sana pianta e procederò alle vie legali, tramite la richiesta di costituzione di un Giurì d’onore o con una querela, per tutelare la mia onorabilità”, conclude il figlio del cofondatore dell’M5s.



Seguono nelle ore successive le querele presentate contro Calabresi dai grillini Fico e Di Maio, casualmente in corsa nel movimento per la premiership. Rimane il fatto che l’iniziativa della prima pagina e della prima penna di Repubblica appare con poche pezze d’appoggio, figlia probabilmente dell’ennesima trattativa interna al Pd in cui Renzi stesso è ormai in un angolo per le bordate del fronte De Benedetti-Napolitano. 

E’ Repubblica infatti a dettare l’agenda del Pd in parlamento, come ai tempi di De Mita, e non Renzi, il quale si limita ad assecondare la folle corsa alla fiducia del quotidiano di Scalfari su temi considerati irrinunciabili per salvare la legislatura dalle Dat allo ius soli. E Renzi lo fa nella speranza che quei temi, richiamati e imposti per proteggere il governo Gentiloni, finiscano per produrre tensioni tali nella coalizione da giustificare le elezioni il 5 novembre. In coincidenza con le elezioni siciliane certo, ma soprattutto prima del 22 novembre, data che potrebbe consacrare il ritorno di Silvio Berlusconi sulla scena politica italiana. 



Ci sono ricorsi e ricorsi, o meglio, ricorrenze. Il ricorso di Silvio Berlusconi alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo sarà discusso il 22 novembre prossimo. E finalmente il Cav può cerchiare in rosso sul calendario la data dell’udienza dedicata all’opposizione alla decadenza, per la legge Severino, decretata dal Senato a fine novembre 2013. 

Ma c’è anche una ricorrenza, semplicemente cronologico-simbolica. Un altro 22 novembre, infatti, deve essere probabilmente segnato a fuoco nella memoria del fondatore di Forza Italia. Era quello del 1994, quando pochi mesi dopo il trionfo elettorale del 27 e 28 marzo sotto le insegne del Polo delle libertà e del buon governo, ricevette formalmente l’invito a comparire dalla magistratura di Milano che indagava sulle tangenti alla Guardia di Finanza. Vicenda per cui Berlusconi fu assolto in Cassazione nel 2001. L’allora premier era impegnato a Napoli nella conferenza mondiale sulla lotta alla criminalità e la notizia (anticipata dal Corriere della Sera) fece il giro del mondo, segnando l’inizio della fine del suo primo esecutivo, ma non della sua carriera politica, caratterizzata da molteplici “resurrezioni”.

Compresa quella del 2013, quando pur quasi sconfitto alle elezioni politiche riuscì a tornare in partita come kingmaker del governo Letta, complice in quella circostanza il più duro dei suoi nemici. Quel Giorgio Napolitano vero mandante dei 101 che fucilarono Romano Prodi alle spalle con l’intento deliberato di far cadere Bersani e l’utilità marginale di far nascere il secondo regno di Re Giorgio. Quello che dopo Letta, Renzi e Gentiloni sembra rassegnato a considerare ancora il vecchio Silvio come il male minore.