Riavvolgiamo il nastro. Ad una settimana dalla sceneggiata sulla legge elettorale (sceneggiata l’accordo e sceneggiata la rottura) la realtà sembra prendere forma nella sua dimensione più nitida ed ogni tassello sembra collocarsi nel posto giusto.

Partiamo, quindi, dall’inizio. Da una domanda double face che sembra rappresentare la chiave di volta. Innanzitutto, che necessità aveva Grillo, da menestrello anti-sistema, di entrare in un improbabile accordo istituzionale sulla legge elettorale? E, per contro, che bisogno aveva Renzi, una volta incassato l’ok di Berlusconi e Salvini, di complicarsi la vita coinvolgendo nella partita i grillini? Apparentemente, nessuna! Per entrambi. Eppure — soprattutto in politica — niente accade per caso. Renzi non aveva bisogno di voti: nonostante il no degli orlandiani, degli alfaniani e dei dalemiani, i numeri alla Camera erano certi come al Senato.



E quandunque avesse avuto bisogno, Renzi poteva comunque e senza problemi (Berlusconi avrebbe accettato pur di restare in partita) ricorrere all’arma dissuasiva della riduzione dello sbarramento per riconquistare, se non tutti, una buonissima parte dei compagni di maggioranza.

A conti fatti, quindi, Renzi non aveva alcun bisogno di Grillo se non per “estromettere” definitivamente dai giochi la minoranza interna e rendere palesemente ininfluente il loro voto. Una sorta di “umiliazione” istituzionale per Orlando ed i suoi. E che questa fosse la vera motivazione dello strano “ingaggio”, lo ha confermato, in quelle frenetiche ore, l’inedita quando cruenta presa di posizione del Presidente emerito Napolitano il quale era stato sia lo sponsor numero uno della candidatura del ministro Orlando alle primarie dem, che un fautore di ampie convergenze sulla legge delle leggi.



Proprio colui che da sempre aveva raccomandato e “preteso” larghissime intese sulle regole comuni si vedeva costretto — per amor di corrente — a far saltare il tavolo. Paradosso nel paradosso! Il gioco era ormai scoperto ed a Renzi restava solo un’onorevole via di uscita: quella dell’incidente d’aula (e la scusa dell’emendamento sul Trentino era più che sufficiente) per poter battere velocemente in ritirata e non perdere, assieme alla partita, anche la faccia.

Sul versante 5 Stelle il discorso appare pressoché analogo. L’idea di entrare a far parte di una trattativa politica, rinnegando di fatto il dna e le radici del Movimento, aveva certamente l’ambizione di recuperare il tratto di affidabilità istituzionale indispensabile per una forza che si propone come guida del Paese, ma soprattutto, mirava ad una resa dei conti interna con una facile e definitiva vittoria dei “governativi” Di Battista e Di Maio.



Un calcolo astuto che l’uscita di Napolitano mandava, inevitabilmente, a carte quarantotto costringendo l’establishment grillino ad una — ai più — incomprensibile inversione ad U assieme alla minaccia di un ritorno — più o meno pretestuoso — al “santo web” per una nuova consultazione (che peraltro avrebbe dovuto smentire se stesso ed il plebiscito che aveva tributato all’accordo appena qualche ora prima). Figuraccia che, fortunatamente per Grillo, il voto semi-segreto dell’Aula ed il ritorno della legge in Commissione ha scongiurato salvando capra e cavoli. Dopo il 25 giugno, giorno dei ballottaggi, la discussione sulla legge elettorale riprenderà il suo corso ma niente potrà essere come prima.

L’accordo tra Pd, FI, Lega e l’eventuale coinvolgimento di qualche cespuglio, è probabile che tenga. Certamente per il Pd e per Renzi la legge elettorale diventa la pietra d’angolo, la partita da non fallire e da portare comunque in porto alle condizioni che — come si è ben capito — stanno benissimo a tutti: proporzionale (più o meno puro) e, soprattutto, liste bloccate. La resa dei conti nel Pd, come nei 5 Stelle, è solo rinviata. La composizione delle liste sarà il vero banco di prova. E Orlando è sempre vicino a Pisapia.