Se il siparietto fra Enrico Letta e Romano Prodi andato in scena al festival di Repubblica a Bologna non ha acceso un campanello d’allarme nella testa di Matteo Renzi, provvediamo noi. Il veleno sta tutto in quella battuta dell’ex presidente della Commissione europea: a chi gli chiedeva come mai il giovane Letta continuasse a fare il professore, la risposta è stata sardonica: “Solo temporaneamente…”.



L’ombra lunga di un ritorno dell’ex premier ora insegnante a Parigi sulla scena politica nazionale si staglia quindi dietro Renzi. E non è l’unica. A dimostrare che la via del ritorno a Palazzo Chigi potrebbe essere per il riconfermato leader del Pd molto più difficile del previsto. 

Non appare infatti più vero che la sua leadership sia senza alternative. Nel campo del centrosinistra — sempre ammesso che ve ne siano i voti — i nomi che circolano per la guida del futuro governo sono più di uno. Oltre a Letta, almeno altri tre: Paolo Gentiloni, Pietro Grasso e lo stesso Romano Prodi. 



Quest’ultimo è stato gettato sul tappeto da Giuliano Pisapia, ricevendo un cortese diniego dall’interessato per raggiunti limiti di età. Ma Prodi rimane per molti l’unico federatore possibile, almeno come padre nobile, come dimostra il fatto che Renzi ha voluto incontrarlo immediatamente. E indicarlo da parte di Pisapia ha significato mostrare che un problema di leadership esiste, è grande come una casa, ed esisterà sia prima che dopo il voto. 

Molto dipenderà dalla legge elettorale con cui si andrà a votare: basterà un codicillo per rendere conveniente la costruzione di una coalizione prima del voto. Ma se anche si dovesse andare a liste separate, l’autosufficienza del Pd appare una chimera irraggiungibile. Se si dovesse fare una coalizione, Pisapia, che sta tentando di federare  la litigiosa galassia di sinistra, potrebbe pretendere nuove primarie per la premership, non ritenendosi in alcun modo legato allo statuto del Pd, che prevede un automatismo fra vincitore delle primarie e candidato premier. La vittoria sin troppo facile del 30 aprile potrebbe, insomma, non bastare. 



Ancor più, se la discussione si dovesse svolgere dopo un voto su liste non collegate, Renzi rischierebbe. Se i voti alla sinistra del Pd si rivelassero indispensabili, il prezzo della collaborazione potrebbe essere proprio il passo indietro di Renzi, che altrimenti figurerebbe vincitore assoluto. E Prodi, con il suo proverbiale humor bolognese, si è incaricato di indicare che Letta a quel punto sarebbe il nome più plausibile. Se — in virtù degli strascichi del famoso #enricostaisereno — il leader del Pd impallinasse il nome del suo predecessore, egualmente potrebbe dover cedere il passo ad altri, Gentiloni e Grasso, appunto. La tentazione di dirottare l’attuale presidente del Senato verso la corsa alla presidenza della Regione Siciliana (tutt’altro che scontata) sembra nascondere la fretta di liberarsi di un temibile concorrente. 

Non si può nemmeno escludere che il sacrificio personale del leader fiorentino venga richiesto nel caso che i numeri del nuovo Parlamento impongano una riedizione del patto del Nazareno con Berlusconi, anche se — paradossalmente — in questo caso Renzi potrebbe presentarsi come il garante di questa rinnovata intesa. Del resto, al Cavaliere piace trattare con i leader, e non con le seconde file. E questa considerazione fa dello scenario di un governo Pd-Forza Italia quello in cui Renzi avrebbe maggiori chances di ritornare alla guida del governo. 

Ovviamente la leadership dell’attuale segretario democratico finirebbe in coma irreversibile in uno scenario elettorale in cui la forza di maggioranza relativa dovesse essere quella del Movimento 5 Stelle, o del centrodestra. A quel punto partirebbe la resa dei conti interna, e al Nazareno scorrerebbe sangue. Difficile immaginare qualcosa di diverso dalle sue seconde dimissioni dalla guida del partito. 

Uno scenario tanto ingarbugliato facilita la comprensione del perché Renzi mostri meno fretta di precipitare al voto rispetto a qualche settimana fa. Per di più i dati che indicano una ripresa economica superiore alle aspettative aprono la possibilità di una legge di bilancio assai meno dura di quanto si immaginava. Una legge che il debole governo Gentiloni può tranquillamente gestire. Si può andare a al voto a scadenza naturale, a inizio 2018, guadagnando così qualche prezioso mese per recuperare consensi, sempre ammesso che dentro Renzi e dentro il Pd vi siano idee ed energie sufficienti per un colpo di reni. Ma se questo rilancio non ci fosse, difficilmente il premier dei mille giorni potrà fare rientro nelle stanze dorate di Palazzo Chigi. E in lui non potrà che rimanere il rimpianto di essersi giocato gran parte delle proprie possibilità nella sgangherata avventura del 4 dicembre.