Matteo Renzi che dichiara di non volere elezioni anticipate mentre, sfumato il 24 settembre, in realtà punta al 5 novembre (in coincidenza delle regionali in Sicilia) rischia di apparire un leader insincero, ma è giustificato: il tempo non gioca a suo favore per varie ragioni.

Innanzitutto come leader di partito si trova di fronte scissioni, minoranze fuori dal vertice, vita interna sostanzialmente congelata. La prospettiva di essere “partito della Nazione” del 2014 è minata dal fatto che, al contrario delle passate europee, oggi il partito di Renzi deve fare i conti sulla destra non più con un Berlusconi ai servizi sociali e la Lega travolta dagli scandali, ma con un centro-destra di nuovo vivo e vegeto e, d’altra parte, sulla sinistra — a furia di scissioni — si è creato un conglomerato negativo per il Pd in quanto non solo toglie voti, ma, soprattutto, spinge all’astensionismo.



Inoltre, per la prima volta, il maggiore partito della sinistra italiana ha l’aspetto di una formazione senza dialettica e senza storia. E’ una scelta popolare? Per le elezioni nessun candidato sindaco di sinistra ha voluto Renzi accanto in quanto da Genova a Palermo non si pensa che il segretario del Pd porti voti. Soprattutto pesa la prosecuzione di Gentiloni e cioè un governo Renzi che senza Renzi va avanti ugualmente. Giustizia e ius soli sono leggi controverse, ma quel che più conta è l’economia. I ministri economici, Padoan e Calenda, che Renzi, appena rieletto segretario, aveva degradato a “tecnici” e fatti ripetutamente attaccare dal presidente e dai capigruppo del Pd, non sono incapaci: i rapporti con Bruxelles sono migliorati, non ci è chiesta nessuna manovra “lacrime e sangue”, gli osservatori internazionali migliorano le stime, c’è un segno di ripresa che nel corso del 2017 si sta sempre più consolidando. Sull’immigrazione, con Minniti al posto di Alfano, rispetto al governo Renzi c’è stata una correzione apprezzata dall’Ue e — soprattutto — dall’opinione pubblica italiana.



A sua volta, Gentiloni sulla scena internazionale ha superato i vari impatti, compreso il più difficile, con Donald Trump, riuscendo a salvaguardare coerenza e alleanza senza apparire — come Renzi — l'”orfanello di Obama”. In sostanza: il governo Renzi senza Renzi sta ugualmente in piedi e il 4 dicembre non è stato un “otto settembre”, “la morte della patria”. Rieletto segretario del Pd, Matteo Renzi si è mosso nel segno de “il padrone è tornato” pensando di essere ancora il dominus della scena italiana: nuova legge elettorale, elezioni a settembre, Mattarella passacarte, liquidazione di Alfano e Gentiloni, cambio della guardia in Rai e ora al Consip, ecc.



Ma la bocciatura dell’accordo “proporzionale in cambio di scioglimento anticipato” lo ha sostanzialmente riportato alla casella di partenza. Il segretario del Pd sembra non rendersi conto (o non voler accettare) che il Renzi 2014 non esiste più e che il Renzi 2 oggi in campo ha una connotazione molto diversa agli occhi degli elettori. Quando Renzi aveva annunciato che in caso di sconfitta nel referendum del 4 dicembre sarebbe uscito di scena, il suo ragionamento aveva un fondamento: la motivazione era che per realizzare il suo piano di rilancio nazionale occorreva un quadro istituzionale nuovo con garanzia di stabilità e di decisionalità. In caso di bocciatura Renzi avrebbe mollato perché con il No avrebbe vinto “la palude”, il non rinnovamento, il tirare a campare. Tornando ora in scena nonostante la sconfitta referendaria, Matteo Renzi accetta “la palude”, accetta il proporzionale e la lotteria delle alleanze postelettorali. Non più, quindi, il Renzi 2014, promessa e speranza di un vasto piano di riforme strutturali, ma il Renzi 2 la rivincita, una scommessa di potere senza contenuto preciso, ma capace di passare da Berlusconi a Pisapia da un giorno all’altro. E soprattutto il quadro politico su cui si basava la rielezione a segretario è completamente sfumato: non ci sono più né le elezioni anticipate né il Pd a vocazione maggioritaria. Renzi ha di fronte il sostegno esterno a Gentiloni fino al 2018 e la necessità di una politica con alleanze.

Il risultato dei ballottaggi di domenica prossima aiuterà a capire se Renzi è sulla strada giusta per Palazzo Chigi ovvero quante possibilità ha ancora il Pd di essere autosufficiente, se cioè al Pd bastino i transfughi o se debba trovare alleati. In quest’ultimo caso — secondo Napolitano, Prodi e Veltroni — l’ex premier dovrebbe rinunciare a Palazzo Chigi.