A guardare semplicemente i numeri, bisognerebbe concludere che il governo ha passato serenamente un test molto severo, ovvero il voto al Senato su una mozione contro il ministro Luca Lotti. La maggioranza ha ottenuto 185 voti favorevoli contro 76 no (meno della metà) e 5 astenuti sulla mozione targata Pd. Un largo margine per la mozione Pd-alfaniani-autonomie che non lascia tanti spazi a discussioni. Il documento ostile presentato dagli scissionisti del Pd è stato respinto con 152 no e 69 astenuti. Numeri diversi ma sostanza invariata. 



Il Consip Day si risolve dunque al Senato con uno scampato pericolo per il governo. Tuttavia non bisogna cadere nell’errore che fanno tutte le professoresse di matematica (auguri ai maturandi): fermarsi ai numeri. La sinistra scissionista — non la Lega o i 5 Stelle che sono costretti a fare opposizione, ma una parte non secondaria della maggioranza — ha presentato una mozione per togliere le deleghe a un ministro che essa stessa sostiene. E in aula ha usato toni violenti contro uno degli esponenti più in vista del Giglio magico.



Una giornata combattuta a colpi di regolamento, nel più classico stile di fine regime. Schermaglie se tenere il dibattito, incertezze sul voto. E alla fine un’evidenza chiara: anche se il partito di Matteo Renzi ha superato indenne la prova delle urne di Palazzo Madama, la questione dei rapporti con il Mdp rimane un pesante intralcio per la maggioranza. Miguel Gotor è stato lapidario: “Non è necessario attendere le conclusioni giudiziarie per rendersi conto che in questa storia la commistione fra affari e politica abbia dato luogo a un intreccio dannoso per l’autorevolezza delle istituzioni”. È Paolo Gentiloni che deve prenderne atto e trarne le conseguenze, se vuole arrivare al 2018, perché tutto sommato al segretario del suo partito le risse parlamentari fanno soltanto comodo. L’incidente è sempre in agguato, il governo è in equilibrio perennemente instabile e il sogno di elezioni anticipate è pronto da rispolverare. 



Resta sullo sfondo il contrasto tra Renzi e la nuova coppia Prodi-Pisapia, i tessitori della trama unitaria (almeno a parole) di cui però non si vede traccia nemmeno tra i parlamentari a loro più vicini. Il Pd prende i voti di Quagliariello e non quelli di Bersani: qui c’è tutto il paradosso della maggioranza che sostiene Gentiloni. E Renzi soffia sul fuoco, spingendo i suoi a scavare il solco con i bersaniani. Proporzionale nei rapporti con gli alleati, maggioritario nello scontro con gli ex democratici: Renzi vuole affossare i tentativi unitari, il cui simbolo è il “collante” di Romano Prodi, perché il prezzo del riavvicinamento è il cambio di leadership. Per lui l’alleanza è concepibile soltanto a prezzo di lealtà totale. Il risultato è un voto unitario su Lotti, al di là dei proclami; una maggioranza che non si sfalda — almeno stando ai numeri — e le elezioni politiche che si radicano nel 2018.