Fuori piove. Piove e tira vento. È dai primi anni ’90 per la verità, da quando sotto le macerie del muro di Berlino vi rimase anche la cosiddetta Prima repubblica. Allora tangentopoli e la finanziaria del governo Amato da novantamila miliardi, con tanto di prelievo sui conti correnti, segnalarono rumorosamente agli italiani che un’epoca si era chiusa e avrebbero dovuto ripensare il loro patto fondamentale. Le regole profonde su cui ricostruire la loro comunità. Non lo facemmo, quello che rimaneva del potere politico provò solo a sostituire chi c’era prima e, a ondate successive, i più improbabili salvatori della patria si sono abbattuti su questo povero Paese. Oggi i cinque stelle, ieri la Lega (chi preferisce ci metta pure Berlusconi e la sua “cacciata dei parrucconi”), domani i prossimi eroi che, evidenti figli della coazione a ripetere, non tarderanno ad arrivare in nome di un cambiamento che non cambia.
Sì certo, queste rivoluzioni da operetta hanno molto a che fare con lo spirito italico, con la strutturale fragilità nazionale che salta in braccio al primo che passa che indica strade facili, paradisi dietro l’angolo e categorie di “cattivi” che si frappongono al raggiungimento di tali nirvana di benessere e felicità (l’Europa, la Germania, i politici, come prima il sud, ecc.). Forse orwellianamente è il destino di tutte le rivoluzioni. Scriveva Flaiano: “cercava la rivoluzione trovò l’agiatezza”. Perché “una volta fatta la rivoluzione gli oppressi prendono il potere e cominciano a comportarsi come gli oppressori” e “da quel momento diventano irraggiungibili al telefono” (W. Allen).
Fatto sta che l’Italia è ferma lì. A un’architettura costituzionale di un altro tempo e, soprattutto, a quella frattura tra la sua classe politica e il popolo mai ricomposta. Una strada lunga, lastricata di buone intenzioni riformatici ci ha portato diritti nell’inferno politico odierno. Fatto di un perfido allineamento di fattori di crisi strutturali. La crisi economica si specchia nella debolezza del sistema istituzionale. L’inadeguatezza del sistema istituzionale non può per definizione offrire soluzioni a una profonda crisi di modello economico che richiederebbe governi di buona lena e stabili. Solo chi crede a orchi e unicorni può pensare che il prossimo parlamento, grazie alla nuova legge elettorale, possa esprimere un governo legittimato e duraturo. Capace di stabilire meccanismi di accountability con gli elettori, che possano votare e giudicare in un tempo sufficiente al dispiegarsi dell’azione riformatrice.
Il quadro è forse anche peggiore, se è possibile. Il vero perverso lascito dell’ultimo referendum costituzionale con cui confrontarsi è la rassegnazione. L’accettazione dell’idea di irriformabilità del sistema. Essendo oltre trent’anni che ci si prova lo status quo può tranquillamente essere studiato sotto il profilo della geografia di questo Paese. Come molte delle sue cose che sono invece fenomeni umani (la mafia, ad esempio). Ed è invece proprio oggi che occorrerebbe additare strade nuove che combattano la rassegnazione. Facendo tesoro della massima di Einstein che riteneva tipico della follia umana ripetere le stesse azioni e attendere che prima o poi diano risultati differenti.
In questi anni tutte le iniziative di cambiamento della Carta avevano un tratto essenziale. Non mollare il pallino della modifica delle regole del gioco. I partiti, per quanto deboli e in parte illuse mosche cocchiere del presente, hanno sempre cercato di conservare al parlamento la legittimazione che l’art. 138 della Costituzione mette nelle loro mani. Sì, si sono aperte l’altro ieri come ieri, finestre di partecipazione “esterna” al processo costituente nella sua fase progettuale, come nel 2013 quando Giorgio Napolitano convocò i suoi saggi, ma fondamentalmente i giochi si sono sempre fatti in poche stanze dalle finestre opache e senza nessun coinvolgimento degli italiani. Sulle grandi linee, se questi volessero una repubblica federale o meno, presidenziale o parlamentare, con una camera o due, nessuno li ha interpellati per il timore di cui sopra, accentuato forse dalle paure di un tempo, il presente, proclive alle derive autoritarie. E invece le derive autoritarie, come la storia insegna, hanno humus ideale nell’instabilità endemica e nelle fratture protratte tra società e politica.
Se questo è vero, se i risultati sono questi, occorrerebbe allora forse rompere questo circolo vizioso. Invertire l’ordine dei problemi e delle precedenze alla luce delle esperienze passate. Due sarebbero allora le priorità a cui una classe dirigente minimamente preoccupata del futuro dovrebbe guardare. Primo: smetterla con le riforme della Carta a rate e frazioni (se ne contano 15 dal 1948 ) puntando a una riforma organica della stessa, unico vero anticorpo alle derive autoritarie. Secondo: ricomporre, se non una relazione sentimentale, almeno un legame diretto, tra il popolo e le sue istituzioni.
Quanto al primo punto è perfino ovvio che una Costituzione (anche limitandoci alla sua prima parte) è un corpo vivo e coerente. Laddove gli italiani dovessero propendere per una democrazia “più decidente”, attribuendo la maggioranza in assemblea a posizioni a favore dell’elezione diretta dell’esecutivo (o del Presidente), solo un regime di check and balance organico (che magari rifletta anche sul sistema informativo) potrebbe evitare all’Italia di partire (come si diceva una volta) per l’America del nord per poi ritrovarsi in quella del sud. Quanto invece al secondo punto vi è un solo modo per realizzarlo: votare un disegno di legge costituzionale di modifica dell’art. 138, che affianchi all’elezione del nuovo parlamento (a questo punto non inutilmente eletto su base proporzionale) un’assemblea costituente.
I tempi ancora ci sarebbero. Ne aveva parlato Stefano Parisi all’epoca del suo no al referendum costituzionale renziano, esistono già in questa legislatura alcuni di disegni depositati in parlamento, quello ad esempio del Senatore D’Alì, o quelli bipartisan dei senatori Compagna, Corsini e altri. Tale prospettiva, ardua come le passate esperienze insegnano, per avere una qualche possibilità di non reiterare anch’essa conati di cambiamento, dovrà, da una parte trovare una forma di armistizio con i poteri costituenti del parlamento, disegnandole magari un ruolo istruttorio e di proposta verso le camere (che approverebbero senza potere però di emendamenti, se non a maggioranza qualificata). Tradotto, dovrà rassicurare in parte i partiti che hanno sempre alla fine fatto naufragare tali iniziative. Dall’altra occorrerebbe aprire un dibattito vero sugli organi di stampa e nella nazione. In cui chi ha interessi importanti in questo Paese, i gruppi sociali organizzati (penso a Confindustria, ma non solo), i gruppi che presidiano l’informazione, si mettano tutti al servizio di un processo riformatore che tiri il Paese fuori dalle secche rinnovando ab imis la sua politica.
Si sporchino le mani, scendano in campo con il loro peso mediatico e nella società piuttosto che cavalcare la tigre dell’ennesimo movimento dei salvatori o lisciare il pelo al governo di turno. Non credo occorra fare loro i disegnini per spiegare che il successo di alcune forze, all’evidenza inadeguate al governo, farebbe prima di tutto strage di valore dalle loro parti, nel tessuto produttivo italiano. Perché anche i cretini capiscono che vi è un solo modo per scongiurare l’ascesa al potere di grillini et similia, riorganizzare una democrazia efficiente – in Francia lo fecero nel 1958 partendo da una situazione molto simile e ciò li ha protetti nel 2017 -, chiamando gli italiani a costruirsi una nuova casa a loro misura. Fuori piove, continua a tirare vento, non si vedono all’orizzonte vecchi con la barba bianca e arche che salvino alcuni e non altri.