Escono due risultati clamorosi dalle elezioni amministrative parziali del 25 giugno 2017. Il primo è l’assenteismo, primo partito assoluto italiano, nonostante le fantasie e le auto-consolazioni di gran parte della stampa, dell’informazione in generale e di parte della politica. Lo avevamo anticipato in questi giorni ed è un problema che  riguarda la democrazia rappresentativa in generale e quella italiana in particolare, anche se si tratta di consultazioni amministrative. E’ un problema che ormai si pone con urgenza. Il vecchio paradosso descritto da Joseph Schumpeter, rispetto ai dati dell’affluenza, sembra una “bufala” da spendere per consolare molti sprovveduti della vita democratica.



Il secondo risultato clamoroso è la sconfitta, per la seconda volta nel giro di sei mesi, di Matteo Renzi come capo del Partito democratico, che ha infilato un doppio “ceffone politico” tra referendum istituzionale e amministrative parziali. Se si guarda con una certa freddezza e un minimo di raziocinio tutto quello che è capitato, intorno ai due elementi fondamentali, sembra il contorno confuso di un’emergenza politica e sociale che si è intrecciata all’emergenza economica, con una crisi che sembra irrisolvibile dopo un’incertezza istituzionale italiana che dura ormai da 25 anni.



Veniamo alla sostanza. Forse si è battuto un record storico (ma non ci si fa nemmeno più caso) con una partecipazione al voto inferiore al 50 per cento. Certo è giugno, certo è finita la scuola, certo siamo al  ballottaggio, certo di qui e certo di là. Di su e di giù. Ma i numeri sono lì a parlare, in modo chiaro  e inequivocabile. Poi c’è la segreteria appena rinnovata di Renzi, il “conducator”, il “rottamatore” che rischia di diventare adesso un auto-rottamatore. Altro che il “vinavil” del “buon babbeo” Romano Prodi, qui ci vuole il “taccatutto”, come dicono a Milano, che Giorgio Squinzi ha inventato per le piastrelle di Sassuolo e forse non basta neppure quello per rimettere in sesto la sinistra sbrindellata.



Matteo Renzi sta battendo record impensabili per la sinistra fino a qualche anno fa. “Genova per noi”, canta il grande Paolo Conte e ti viene sempre in mente una storia che più di sinistra non c’è: dal “luglio 1960” contro il governo Tambroni, fino alla città delle partecipazioni statali, a quella dei camalli del Porto. Eppure Genova passa al centrodestra, a una sorta di rimpatriato sconosciuto fino a poco tempo fa, che ha trascinato alle urne un totale del 32 per cento di aventi diritto. Poi c’è la débâcle di La Spezia, la città dell’Arsenale, quindi l’ex Stalingrado d’Italia, Sesto San Giovanni. Anche lei passa al centrodestra insieme a tanti altri posti tipici e caratteristici della sinistra.

La sinistra potrebbe consolarsi con Padova, ma significherebbe non comprendere nulla di quello che sta accadendo nel Paese, tra la profonda disillusione per le istituzioni, per la classe dirigente in generale, per quella politica in particolare, per l’apprensione con cui si devono affrontare i prossimi mesi, tra manovra di autunno, complessità europea e internazionale, elezioni politiche generali.

In questo quadro, non è neppure credibile la nuova “vittoria” del ragazzo ottantenne con un centrodestra rinnovato. Lo abbiamo già definito un “rigurgito” a tutto quello che gli italiani hanno dovuto subire dal governo di Mario Monti in poi.

A noi sembra proprio che non abbia vinto nessuno e ci siano due elementi clamorosi che emergono con grande evidenza. Ma non si creda che il risultato, che in fondo era abbastanza scontato, possa influenzare il noioso tran-tran, l’insopportabile polemica della politica italiana. Si arriverà, nella rissa continua, fino alle elezioni nazionali. Ci saranno ancora nuove promesse grilline. Si aggiungeranno proclami berlusconiani e salviniani, oltre a meditate vendette di Renzi.

Ma per rimediare a una simile situazione ci vuole ben altro, partendo da un’autocritica che riguarda un quarto di secolo sprecato, la ricostituzione di una rappresentanza politica, di partiti con concetti nuovi e con basi moderne, ma sempre democratiche. C’è un tessuto sociale da ricostituire, c’è una situazione sociale ed economica da affrontare con coraggio e senza le scontate “prediche” sui dati che “migliorano e peggiorano”. A seconda dei commentatori. 

Speriamo di sbagliarci, ma ci viene in mente un commento che faceva sempre il generale De Gaulle di fronte alle situazioni problematiche: “Vaste programme”.