Dopo quello del 4 dicembre, ieri Matteo Renzi è riuscito a perdere un secondo referendum, quello dei ballottaggi per i sindaci di 111 comuni. Il secondo turno di un’elezione comunale assomiglia molto a un referendum: si vota Sì o No, c’è un’alternativa secca tra le proposte elettorali, non esistono sfumature o possibilità di distinzioni. La scelta è limitata e spesso, come è successo in Francia, molti elettori scelgono con il naso tappato. Tracciano la croce sul male minore. Piuttosto che la Le Pen, meglio Macron. 



Oggi in Italia il male minore è tutto fuorché Renzi. Genova, Verona, L’Aquila, Parma, Sesto San Giovanni e decine di città hanno scelto dei sindaci che non sono del Pd. Clamoroso il caso del capoluogo ligure, dove il centrodestra non aveva mai scalfito il potere dei partiti della sinistra. Genova è la città di Grillo, che non è andato a votare e con la sua astensione ha certificato il disimpegno dei 5 Stelle dai ballottaggi. L’affluenza è stata ovunque bassa, a Genova addirittura poco oltre il 32 per cento. Non è un buon segnale. Ma gli assenti hanno sempre torto. E chi ha avuto ragione è stato il centrodestra che ha rimesso assieme i cocci.



Se il centrodestra è il male minore, il Pd di Renzi è il male maggiore, con la sola eccezione di Padova. Prendiamo Verona, dove i democratici erano stati esclusi a sorpresa dal secondo turno. Il partito non è stato capace di dare un sostegno reale alla fidanzata di Tosi, nessuno si è mobilitato per Patrizia Bisinella, e quando Renzi si è sentito in dovere di intervenire in prima persona nell’ultimo giorno di campagna elettorale invitando a votare contro Salvini, probabilmente ha indotto gli ultimi indecisi a spostarsi proprio dall’altra parte. È stato come il bacio della morte. Ormai sembra che gli elettori si orientino facendo l’esatto opposto delle indicazioni renziane. E per colmo di tafazzismo finiscono per consegnare la città agli avversari.



Sconfitto il 4 dicembre, dimissionario, rieletto da un congresso semi-bulgaro, Renzi non si rende conto di avere chiuso il suo ciclo. Ha i voti dei militanti, ma sempre meno quelli del popolo. Paga le difficoltà del governo, le mosse maldestre sulle banche, gli interventi autoritari sulla Consip e sulla Rai, le forzature sullo “ius soli”, ma anche la progressiva perdita di pezzi a sinistra, il logoramento di un partito dalla carta d’identità sbiadita, la vacuità di un progetto che si fonda sull’uomo solo al comando.

Così facendo, Renzi regala la ribalta al centrodestra che si ritrova ad aver vinto una tornata elettorale senza un progetto e una prospettiva chiara. I moderati premiano i tentativi di tornare all’unità, questo è chiaro. Gli elettori hanno nostalgia di quando Berlusconi, Bossi e Fini marciavano sostanzialmente uniti. Ma il centrodestra di oggi è fatto di partiti piccoli, in cui nessuno supera il 15%, e che soltanto fusi assieme attorno a un unico nome possono sperare di contare qualcosa. 

Il centrodestra è cementato soprattutto da un sistema elettorale a doppio turno che obbliga a coalizzarsi nel momento in cui a sinistra prevalgono le divisioni anti Renzi. E dunque c’è da chiedersi se questo successo alle amministrative può essere realisticamente replicato su scala nazionale, dove ci si sta orientando verso un sistema proporzionale di segno opposto. Con il proporzionale Forza Italia guadagna un ruolo centrale, ma il centrodestra nell’insieme perde in coesione. Insomma, la vittoria di ieri senza una prospettiva chiara rischia di trasformarsi nell’ennesimo boomerang.