A tre giorni dai risultati dei ballottaggi per la tornata parziale delle elezioni amministrative si assiste a un dibattito quasi surreale, in cui i significati politici escono e rientrano a seconda delle convenienze immediate, anche un po’ meschine, di partito o di schieramento. Proviamo a riassumere un poco quello che sinora si sta ascoltando.
Il primo schema che emerge dai telegiornali e dai giornali, che ormai leggono pochi intimi, si divide in tre parti: sconfitta del centrosinistra, soprattutto del Partito democratico di Matteo Renzi; battuta d’arresto o passo falso del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo; “resurrezione” del centrodestra che viene alternativamente e metaforicamente tirato per la giacca da Silvio Berlusconi e da Matteo Salvini.
Non c’è dubbio che una parte di verità stia anche in questa affrettata lettura dei risultati di domenica 25 giugno. Ma, con tutta probabilità, c’è una dannata mania italiana, che è quella di dimenticarsi il contesto in cui tutto questo è avvenuto, in cui tutto questo è maturato negli ultimi mesi, negli ultimi anni, probabilmente in molti anni, all’ombra di un mutamento epocale di carattere sociale, di una nuova organizzazione del lavoro, di nuovi assetti geostrategici, di necessità di buone riforme istituzionali. E il tutto all’ombra di una crisi economica la cui soluzione conviene ormai affidare a degli “stregoni” o a degli “sciamani”, per evitare il rischio che ritornino i famosi “tecnici”, oppure quelli che il premio Nobel, Paul Krugman, ha definito da tempo “la compagnia dell’austerità”, cioè “la notte degli Alesina viventi”.
Piccolo dettaglio. E’ strano che i giornali italiani siano sempre attenti e scrupolosi a riportare le frasi più sensazionali della stampa estera, in questo caso niente meno che un fondo del New York Times, ma questa frase lapidaria di Krugman, forse perché colpiva la compagnia di giro dei “neoliberisti italiani” diventati dei guru del trionfo del mercato propagandato da Corriere e da Repubblica, non è stata mai riportata.
A ben vedere, l’Italia, più di qualsiasi altro Paese dell’Occidente, soffre oggi di un intreccio di crisi sociale, politica, economica e istituzionale determinata da scelte affrettate e sbrigative adottate o trascurate nel 1992, con una serie di complicità che dovranno essere oggetto di studio e di approfondimento, non solo per amore di verità, ma per porre rimedio alle conseguenti contraddizioni maturate.
Questo intreccio perverso ha lentamente logorato il Paese, che è arrivato già stremato all’appuntamento con la grande crisi del 2007 e da quel momento ha cominciato disperatamente a sperare in un leader dotato di “poteri miracolosi” per risolvere una situazione che è diventata sempre più intricata e problematica.
Facciamo una sintesi breve. L’Italia che guarda alla caduta del Muro di Berlino ha sperato in Berlusconi ed è rimasta delusa; ha sperato in Prodi ed è rimasta ancora delusa. Poi le disillusioni sono continuate e si sono moltiplicate con D’Alema, il ritorno di Prodi e di Berlusconi, le sconfitte di Veltroni e di Rutelli. Quando è arrivato il “supertecnico” Monti c’è stato un sussulto di speranza, che è svanito nel giro di una manciata di mesi, con conseguenze sociali devastanti. Basta parlare con gli esodati, neologismo forneriano.
Poi è passato Letta, il giovane Enrico. Infine è arrivato Matteo Renzi, presentatosi come “la bomba che scoppia e rimbomba” ed è finito oggi, dopo una doppia sconfitta tra referendum del 4 dicembre e amministrative di domenica scorsa, a commentare sui cosiddetti “social” una serie di banalità, ad affrontare con una approssimazione irritante una crisi bancaria che ufficialmente “non è mai esistita”, a tamponare un’emergenza umanitaria di immigrazione che l’Europa riesce sempre ad aggirare, a confondere l’opinione pubblica su una crisi economica che ha numeri perennemente contraddittori.
La crisi delle banche è poi ormai diventata un cult italiano, sempre in ritardo con gli interventi, con impossibilità di nazionalizzazioni, “regali” a qualche grande banca e rischi per tutti, dimenticandosi di dire la perdita di valore: le azioni di Veneto Banca e Popolare di Vicenza erano valutate 60 euro, oggi si prende 10 centesimi. La colpa non è solo degli amministratori, dei vigilanti, ma del nuovo ruolo attribuito alla banca, ritornata “universale” come prima della crisi del 1929. Lo vogliamo dire oppure bisogna nascondere anche questo?
Dunque, chi relega la perdita, ammessa a mezza voce con irritante nonchalance da Renzi, nelle elezioni del 25 giugno, relegandole a un incidente di basso profilo amministrativo, dovrebbe spiegare perché persino Walter Veltroni cominci a “fare le pulci” al segretario, pure Franceschini cominci ad attaccarlo e tutto il Pd sia in ebollizione, dia la sensazione che Renzi “zoppica” e forse Gentiloni è una scelta migliore, anche perché gli alleati di sinistra il “rottamatore” Renzi non lo vogliono proprio più vedere.
A questo punto si può azzardare l’ipotesi che da anni sosteniamo? E cioè che dal 1992 in avanti, gli italiani sono passati lentamente ma inesorabilmente da una disillusione all’altra, che l’euro non ha di certo risolto e neppure lenito. La sequenza è abbastanza impressionante: mancanza di politica industriale e ondata di privatizzazioni; nuovo ruolo delle banche; blocco delle riforme istituzionali e partiti “rifatti” con “un solo uomo al comando” senza alcuna logica spiegazione; mancanza di riferimenti ideali; invasioni spesso ingiustificate della magistratura in ogni campo, specialmente quello politico; passaggio da quinta potenza industriale a paese di serie B. In più, disoccupazione dilagante, specie quella giovanile, e diseguaglianze sociali al limite dell’intollerabile. Lasciamo perdere pressione fiscale (total tax rate a livelli scandinavi con contropartita di servizi da terzo mondo tranne in alcune regioni), orpelli burocratici e stravaganze di carattere ottocentesco.
E’ possibile che tutto questo abbia fatto girare le scatole agli italiani? E’ così difficile spiegarsi questa disaffezione verso la politica? Senza perdere di vista i rovesciamenti ideologici, al punto che la sinistra tradizionale è diventata un alfiere della globalizzazione senza regole e del mercato ugualmente sregolato, con la finanza a battere i tempi delle grandi scelte strategiche.
Perché non rendersi conto che, parallelamente a quanto accadeva, gli italiani sono andati alle urne sempre di meno. Alcune favole giornalistiche dell’Italia che diventa come i paesi anglosassoni o “maturi” perché vota di meno, è veramente solo una favola, perché ogni paese ha una sua storia particolare e la democrazia italiana è cresciuta su una grande partecipazione al voto, che ha riconquistato dopo il ventennio fascista.
Allora, quando si pensa al voto del 25 giugno, alla sconfitta di Renzi, si può aggiungere che si è assistito a una sconfitta generale. Quando va a votare, in Italia, meno del 50 per cento, anche in città che sono state un simbolo e che comunque hanno sempre avuto un peso nella politica nazionale, si può dire che è come se ci fosse una riunione di condominio senza il numero legale.
Speriamo di sbagliarci, ma la pensiamo in questo caso come Fausto Bertinotti: quando si pensa a un risultato come quello del 25 giugno e non si pesa il record d’astensione che c’è stato, si fa la solita imprudente operazione di guardare al dito al posto che guardare alla luna.