Il dado sembra ormai tratto, l’accordo a quattro regge e la fretta la fa da padrona. Obiettivo: voto in autunno sempre più vicino per l’inedito asse fra Pd, 5 Stelle, Forza Italia e Lega Nord. Uno dopo l’altro i nodi più ingarbugliati sono stati sciolti, e il testo che martedì mattina approderà nell’aula della Camera presenterà assai meno profili di potenziale incostituzionalità rispetto alla prima bozza presentata dal dem Emanuele Fiano.
Un punto è rimasto fermo: il voto unico con cui si sceglierà insieme il candidato presentato nel collegio uninominale e il partito collegato, senza alcuna possibilità di voto disgiunto. Una sola croce, insomma, per la Camera e una per il Senato, e nessuna possibilità di esprimere preferenze, perché il listino di partito sarà bloccato.
Il no al voto disgiunto è la prima grande differenza dal modello tedesco, cui la nuova legge elettorale dice di richiamarsi, ma non l’unica. Nel “tedeschellum” all’amatriciana cambia anche l’equilibrio fra eletti con il maggioritario e con il proporzionale: non più 50 per cento e 50 per cento, ma 40 per cento maggioritario e 60 per cento proporzionale. E questo spostamento di pesi ha consentito di risolvere uno dei punti più controversi, l’ipotesi che i capilista del proporzionale potessero essere eletti a scapito di candidati che abbiano vinto il proprio collegio uninominale.
Altra stortura corretta dall’accordo di ferro a quattro, la riduzione delle candidature multiple possibili a un collegio uninominale e a un solo listino proporzionale, mentre prima erano tre.
Il muro a quattro ha retto in commissione Affari costituzionali contro ogni tentativo del fronte del no (Mdp, Sinistra Italiana, Fratelli d’Italia e centristi sparsi) di introdurre le preferenze, o un premio di maggioranza alla lista più votata. Soprattutto ha retto all’affondo per abbassare la soglia del 5 per cento per entrare in parlamento, altro punto fermo dell’accordo. Così, se un candidato dovesse vincere il proprio collegio ma il suo partito non avesse almeno il 5 per cento a livello nazionale, non sarebbe eletto.
Ma che la fretta di andare al voto sia un formidabile cemento politico è dimostrato soprattutto dalla soluzione trovata sul disegno dei collegi, questione che avrebbe potuto portare via parecchi mesi. Ripescando la mappa dei 232 distretti elettorali utilizzati dal 1994 al 2001 per il Senato la via per il voto è sgombra, e a nulla sono valse le proteste di chi ha fatto notare che sono disegnati sulla popolazione del censimento del 1991, e non sull’ultimo. Per Palazzo Madama stesso schema, accoppiando i collegi della Camera.
Che all’improvviso sia scoppiato il sereno fra quattro forze che insieme rappresentano l’80 per cento dei parlamentari viene indicato in modo indiretto dalla bonaccia che improvvisamente sembra avvolgere Virginia Raggi e la sua sgangherata giunta capitolina, nei mesi scorsi bersaglio delle più feroci accuse da parte di Matteo Renzi e soci. Oggi serve invece abbassare i toni per incassare le elezioni anticipate. Serve dimostrare a Mattarella che le regole si stanno scrivendo insieme. E di farlo si è incaricato il capogruppo democratico Rosato.
Salvini e Berlusconi invocano le elezioni da una vita, ed ora la loro richiesta coincide con i desiderata di Renzi e Grillo, che per questo ha imposto ai suoi l’ennesimo diktat via blog. Pur di votare si è fatta un’intesa su un sistema proporzionale puro, che taglia fuori le piccole formazioni, ma in cui i governi si formeranno inevitabilmente in parlamento dopo il voto. Insomma, un ritorno di fatto alla Prima Repubblica.
In più, votando a ottobre nessuno dovrà intestarsi la manovra economica lacrime e sangue che l’Europa intende imporci per raddrizzare i conti. Gentiloni e Padoan potranno preparare con calma le misure necessarie, che verranno poi contrattate con Bruxelles non appena in Italia ci sarà un nuovo governo. Sarà il primo voto per le elezioni politiche in autunno dal 1946, ma la possibilità concreta che si finisca in esercizio provvisorio, prima volta dal 1987, sembra non spaventare la classe dirigente, mentre preoccupa non poco il Quirinale.
L’incubo si chiama scenario spagnolo, cioè una situazione di stallo in Parlamento dopo le elezioni, con la possibilità che nessuna maggioranza riesca a formarsi, neppure nel caso di alleanze inedite come Pd-Forza Italia, oppure 5 Stelle-Lega. Con il proporzionale di fatto puro del “Tedeschellum” persino un ritorno alle urne dopo pochi mesi, come accaduto a Madrid, potrebbe essere un’ipotesi da non escludere del tutto.