Quando sono partiti all’attacco anche Dario Franceschini e il giovane Romano Prodi, si è compreso che la sorte politica di Matteo Renzi è arrivata all’appuntamento decisivo. O il segretario “bomba” cambia tutto, rischiando un tratto solitario e non breve, o riveste la “faccia di tolla”, il ruolo ambiguo ma ben sorretto di un Emmanuel Macron, oppure si allinea al vecchio schema italico, ormai diventato noioso e scontato. E non è detto che quest’ultimo passo possa salvarlo.
E’ tuttavia utile analizzare la situazione attuale del Partito democratico, per vedere quanto poco sia cambiato questo Paese, tra “rivoluzioni di velluto”, liquidazioni di partiti e cambiamenti di vario tipo del tutto inconsistenti.
L’impressione è che Dario Franceschini sia il prodotto più gettonato della versione moderna post-democristiana, un “galleggiatore” politico del XXI secolo che ha ereditato la parte meno interessante della Dc. Ci permettiamo di dire che ha ereditato la parte meno nobile di un partito che pure ha svolto una funzione importante nel dopoguerra italiano almeno fino agli anni Settanta, per poi perdersi in incertezze paralizzanti.
Romano Prodi è un personaggio che va bene in ogni stagione, soprattutto nel suo classico ruolo: quello di rappresentante di alcuni poteri forti (o un tempo forti) da coniugare con un vago, molto vago, interesse popolare. Una leggenda metropolitana, che in Italia si tramanda da decenni, dimentica, con una tenacia incredibile e irritante, le capriole fatte da Prodi sul tragico caso Moro, dove rimase quasi irretito dalle domande che Leonardo Sciascia gli poneva in Commissione (basta leggerle su Google), e la lotta contro Mediobanca, a capo di un Iri che ha svenduto tutto quello che in Italia si poteva svendere. Sia Franceschini che Prodi sono l’espressione della mediocrità più lineare della politica italiana di questi anni, almeno dal 1992 a oggi.
Ma questa loro mediocrità è perfettamente funzionale a poteri forti esteri, a quello che resta dei poteri forti italiani e soprattutto a una parte consistente della sbrindellata sinistra, che non sapeva dove andare a sbattere la testa e che ha vantato tra i suoi “referenti” tutto l’ex comunismo storicamente perdente: quello che è arrivato a ripudiare, a condannare, a suo tempo (anche questo è stato naturalmente dimenticato), persino uomini come Nikita Kruscev e Giorgio Amendola, ma riponendo la sua fiducia anche in personaggi come Breznev, Andropov, e poi naturalmente nel confuso Berlinguer, povera anima in balìa degli eventi dei grandi mutamenti politici e della sua sfortunata vita di autentico liquidatore del Pci, anche se quello formale fu Achille Occhetto.
Ai Prodi e ai Franceschini è sempre piaciuto compiacere i “poteri che contano” e “gestire” la facciata di una sinistra inconsistente, che oggi ha perso anche i connotati di un vecchio antagonista combattivo.
Le loro operazioni sono state sempre sbilenche, mal riuscite, quasi subito abortite. Il professor Prodi andava e veniva da Palazzo Chigi come un treno merci e i suoi gli hanno fatto pure un’imboscata sanguinosa sulla presidenza della Repubblica. Verrà pure il giorno in cui si saprà quanti “derivati” ci è costato l’ingresso in questo tipo di Unione europea, voluta da Prodi soprattutto.
Franceschini si è sempre mosso dietro le quinte, in silenzio fino all’agonia del leader che conveniva mantenere in sella solo per un certo periodo. Poi è sempre andato in soccorso del vincitore, per usare un famoso aforisma. Insomma, Franceschini è il continuatore di quella tradizione disastrosa che voleva coniugare la vecchia sinistra democristiana con gli epigoni del comunismo, gestendone il consenso, in tessere e potere, ma sempre pronto alla “misericordia”, cioè a usare il pugnale da piazzare al momento giusto in modo indolore contro il perdente di turno.
Se si guarda bene alle vicende di questi anni, dopo la crisi economica, la caduta di Berlusconi e i catastrofici “tentativi tecnici”, Matteo Renzi è stato solo il frutto del doppio opportunismo, rinnovato ovviamente e aggiornato anche ideologicamente, di personaggi come Prodi e Franceschini. E’ il loro “figlioccio” democristiano di sinistra in versione mercatista e decisionista, con un carattere però poco adatto alla politica (la sua capacità è un’altra leggenda metropolitana italiana) e soprattutto inesperto nelle mediazioni con la vecchia stampella della sinistra e all’interno della tortuosa dialettica democristiana.
Forse Renzi poteva insistere maggiormente nella sua “strada” di rinnovamento totale di un partito concepito male e compromesso da una faida che sembra figlia di Saturno, il dio che mangiava i suoi figli. Ma è difficile sfuggire a una storia nata male e proseguita peggio.
Di fatto, sono cambiate molte sigle in questa Italia, ma non sono mutati i comportamenti, le logiche, l’idea di fondo della politica. Nel momento in cui il “figlio” non funziona, anche i “patrigni” opportunisti di tante antiche battaglie democristiane sono rispuntati con una puntualità incredibile: uno “sposta la tenda”, l’altro sibila “qualche cosa si è rotto”. In questo gioco al massacro, ci si stupisce o si minimizza che nessuno va a votare. E’ incredibile!
Forse, anche se con nomi diversi, è proprio vero che l’idiosincrasia verso il cambiamento, ci farà morire di fatto tutti democristiani.