Mentre Beppe Grillo e Silvio Berlusconi — l’uno preoccupato e l’altro rincuorato dal voto delle amministrative — chiudono i fronti interni, smussano i contrasti, recuperano i dissidenti, ricompattano le file e cercano alleanze, Matteo Renzi si muove nella direzione opposta: sfida il dissenso e preferisce lo scontro frontale e solitario.
Il suo ragionamento è lineare: anche se ha perso il referendum e le amministrative, ha vinto le primarie e cioè si è confermato leader del partito che è e sarà il perno della governabilità italiana, per male che vada avrà nella prossima legislatura 200 deputati e 100 senatori da lui scelti e quindi è destinato a mantenere un ruolo determinante sulla scena politica nazionale. Certo il Renzi che sopravvive alla sconfitta referendaria e accetta “la palude” non è il Renzi 2014 delle “grandi riforme”, ma pur sempre un protagonista importante e aggressivo. Inoltre egli ormai interpreta il voto referendario non più come una sconfitta, ma come una conferma del 40 per cento delle europee con il premio della maggioranza assoluta a portata di mano e quindi non ha bisogno di nessun partito alleato.
Eppure proprio su questo punto la contestazione interna al Pd è decollata nella stessa maggioranza renziana. Che cosa è rimasto — si obietta — del 40 per cento del 4 dicembre? Renzi ha perso (e ha contro) prima i centristi di Alfano, poi il patrocinatore della riforma costituzionale Giorgio Napolitano a cui si sono aggiunti i fondatori sia dell’Ulivo sia del Pd a vocazione maggioritaria, Romano Prodi e Walter Veltroni, e infine anche Giuliano Pisapia che erano schierati per il Sì. Solo bombardamento aereo senza truppe di terra? Eppure qualche “scarpone sul terreno” si è cominciato a vedere nell’ultima direzione del Nazareno anche perché il Pd continua a scendere sempre più al di sotto del 30 per cento.
Il logoramento deriva anche dal fatto che dal 4 dicembre Renzi si è mosso con l’obiettivo delle elezioni anticipate (in febbraio-marzo, poi prima dell’estate e infine il 24 settembre). Venuto meno questo sbocco e con l’allungarsi dei tempi le scelte compiute in vista di elezioni immediate si sono rivelate fragili. Sia la scissione sia la presa di distanza dal governo Gentiloni per il voto anticipato non hanno rafforzato il Pd: Renzi ha di fronte ancora otto-nove mesi con una diaspora sulla sinistra ben presente in Parlamento e con un governo fotocopia che va avanti senza Renzi e nonostante Renzi.
Il Pd con la rottamazione delle identità politiche comunista, socialista e cattolica vede Renzi certo padrone, ma isolato. Il Nazareno, dopo la direzione di giovedì, sembra un bunker assediato e Renzi dà l’impressione di reagire alla contestazione da sinistra in modo un po’ disordinato. Da un lato preme per lo ius soli e dall’altro vuole un freno all’immigrazione. Fa votare in fretta al Senato un codice antimafia promettendo però di riportarlo al voto di Palazzo Madama modificato.
La criticità che vive Renzi è esemplificata dai due casi di “desaparecidos” su cui aveva puntato: Federica Mogherini Alto commissario per la politica estera dell’Ue e Tommaso Nannicini che doveva definire il nuovo programma di riforme. Renzi ha cancellato la Mogherini dalla faccia del Pd: dal congresso e da ogni iniziativa. La nomina della Mogherini si è rivelata un investimento inutile della vittoria del 2014, ma l’errore lo ha commesso Renzi e consiste sostanzialmente nella scelta fatta di instaurare un rapporto preferenziale, man mano sempre più subalterno, con la Cancelliera. In cambio della Mogherini Renzi scompigliò la controparte socialista e lasciò mano libera alla Merkel nelle nomine dei vertici Ue. Anche nel suo libro, Avanti, Renzi esalta il rapporto preferenziale con la Germania vantando che spesso “ci dà una mano”. Ma già in queste parole l’ex premier ammette e sottolinea l’inferiorità italiana nel rapporto.
Ora Renzi punta a non cristallizzare il fiscal compact nei trattati lasciandolo operante come è oggi. Una battaglia di bandiera che non tocca la sostanza dell’errore di Renzi che è quello di non contestare, ma di agevolare da quattro anni la cristallizzazione di un’Europa a guida tedesca. Macron infatti sta cercando di recuperare terreno ma chiaramente sapendo di non poter contare su alcuna sponda nell’Italia di Renzi. Da qui anche la discesa in campo di Prodi, che ha sempre riequilibrato a fianco della Francia il rapporto con la Germania, e di Napolitano che coinvolgeva la Gran Bretagna per contenere le mire di Berlino. Nella sua politica filotedesca Renzi ha sbagliato anche sulla Bce. Draghi ha aiutato soprattutto l’Italia in questi anni esponendosi all’attacco tedesco. Renzi lo ha sistematicamente ignorato e non difeso dagli attacchi del governo e della Banca di Berlino.
Al caso Mogherini che è il simbolo della debolezza della politica europea di Renzi si aggiunge dunque il caso Nannicini. Renzi lo ha spostato dal governo al partito assegnandogli il compito di coordinare la preparazione del nuovo piano di riforme. Ma visto il disinteresse del segretario del Pd a una politica di contenuti, Nannicini ha ripreso l’attività accademica con incarichi all’estero e oggi a Milano dà vita all’associazione “Europa XXI secolo” con Francesco Giavazzi e Guido Tabellini.