Probabilmente è arrivato il momento di fare un bilancio più preciso e dettagliato di questo decennio. E’ nell’estate del 2007 che arriva il crac della crisi finanziaria. E, anno dopo anno, siamo arrivati all’estate del 2017, con ancora l’incertezza di fondo che si percepisce in tutto il mondo occidentale democratico, quello che, uscito dalla guerra fredda, aveva ribadito la supremazia indiscussa del libero mercato come piedistallo fondamentale della stessa democrazia.



Si sono fatti dei film, si sono scritti libri e articoli di ogni tipo, più per esperti (per la verità) che per il grande pubblico. Si sono fatte analisi in diversi modi e si è assistito  a un terremoto politico e sociale, in quasi tutto il mondo occidentale, di dimensioni impressionanti.  

Ma alla fine, dopo dieci anni, si resta ancora adesso impressionati di fronte alla semplice domanda (senza sostanziale risposta) che la Regina Elisabetta d’Inghilterra pose agli studiosi della London School of Economics. Era il novembre del 2008 e la Regina doveva solo inaugurare dei nuovi locali, ma di colpo, rivolgendosi a una grande platea di studiosi, professori, docenti, esperti di materie economiche, fece  tranquillamente una domanda apparentemente innocente: come è possibile che nessuno si fosse accorto che stava per arrivare un disastro di proporzioni tanto vaste? Forse qualcuno farfugliò qualche cosa, ma sostanzialmente non ci fu risposta.



Il che dimostrava due cose inquietanti: il capitalismo occidentale nel 2007-2008 non ha rischiato solo di crollare (questa è la reale verità) e da allora non si è ancora ripreso nel vero senso della parola, ma nello stesso tempo si capiva che la stragrande maggioranza degli economisti non comprendeva più che cosa stesse accadendo.

In un libro che in Italia si vende quasi clandestinamente, Ripensare il capitalismo, Mariana Mazzucato, docente di economia dell’innovazione all’University College di Londra, e Michael Jacobs, docente come Mazzuccato a Londra, portano un’autentica sfida all’establishment politico e accademico dominante.



Di fronte al disagio di questo capitalismo, di questo sistema economico che stenta a ripartire, basato soprattutto su una finanza che fa tutto quello che vuole e che ha “contaminato” la mentalità della stessa industria, Mazzucato e Jacobs chiamano a raccolta altri undici economisti che si potrebbero definire “eretici” rispetto al “pensiero dominante”, quello che appare ormai come un frutto della profezia del  “grande fratello” di Orwell, quel pensiero unico che domina nei grandi organismi internazionali, sia finanziari sia di quelli che restano della cosiddetta politica. 

Questi studiosi dipingono un quadro ancora allarmante della situazione, non per gusto di pessimismo, ma con lo scopo di capire meglio che cosa non funzioni, come si possano suggerire soluzioni e vedere come si possa continuare a vivere nel libero mercato dopo aver varato una profonda riforma. 

Non si vuole fare un “salto” all’indietro nel socialismo reale. Si vuole solamente riformare il meccanismo che in questi tre secoli ha creato una grande ricchezza e ora rischia di sprecarla, quasi morendo in un “fortino” di pochi per una overdose di stupida avidità.

Tra i tanti nomi di questi economisti eretici spiccano quelli di Joseph E. Stiglitz e quello di Stephanie Kelton, ma tutti intervengono, con apporti e studi originali, partendo dal presupposto che solo i “volutamente non vedenti” ignorano.

Sarà bene ricordare ad alcuni “smemorati” o ad alcuni ottimisti di maniera del 2007 che il crac fu disastroso e colossale. Nel 2009, in 34 delle 37 economie avanzate il prodotto interno lordo è calato e l’economia mondiale, nel suo insieme, è entrata in recessione, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale. Nel giro di un anno, di appena un anno, si è avuto un calo del 4,5 per cento in tutta l’Eurozona (addirittura del 9,6 percento nell’economia più forte del continente, la Germania). Poi un calo del 9,9 in Giappone, del 4,3 in Gran Bretagna e del 2,8 per cento negli Stati Uniti. Tra il 2007 e il 2009, il numero dei disoccupati a livello mondiale è cresciuto di circa 30 milioni di unità, oltre la metà dei quali nelle economie avanzate, con 7,5 milioni in più di disoccupati negli Stati Uniti.

Per impedire una crisi ancora più devastante, i governi sono stati costretti a intervenire con una quantità di denaro pubblico senza precedenti nel salvataggio delle banche, quelle che con la loro prassi creditizia avevano fatto esplodere la crisi.

Si pensi che negli Stati Uniti, i prestiti della Federal Reserve a trenta banche e ad altre società hanno toccato il record di 1.200 miliardi di dollari. Nel Regno Unito, l’esposizione dello Stato per il supporto fornito alle banche sotto forma di liquidità e garanzie ha raggiunto 1.162 miliardi di sterline. Ecco dove sono andati a finire i soldi pubblici, che molti sostengono siano stati rubati da politici o sprecati in varie attività di welfare “superato”. 

Naturalmente, da parte di un establishment ottuso e sempre più screditato, resta l’attacco di fondo a chi si azzarda a mettere in discussione il ruolo avuto dalle banche: sono populisti, di destra, di sinistra, di centro, di governo e di opposizione. Da non credere! E il ritorno della vecchia “banca universale”, quello che i grandi banchieri definivano “una sciagura”, non viene mai messo seriamente in discussione.

Di fronte a un tale scempio c’era qualche pierino, nel 2007, in Italia e nel mondo, che sosteneva che tutto si sarebbe risolto nel giro di un paio di mesi. In realtà l’attuale situazione è ancora grave. Le economie devono affrontare problemi profondi e interconnessi: città inquinate, gravi diseguaglianze, marginalizzazione di larghe fasce di popolazione, crescita lenta, un disastroso cambiamento climatico. Per affrontare questi problemi le politiche economiche devono cambiare. Il che vuol dire che dobbiamo capire fino in fondo come funziona questo capitalismo attuale. Bisogna analizzare con spirito critico, con grande umiltà e dedizione le questioni chiave dell’economia contemporanea: la politica fiscale e monetaria, il mercato finanziario, la diseguaglianza, le privatizzazioni, l’innovazione e il cambiamento climatico.

Questi sono i veri problemi che occorre studiare, pensare, risolvere. E non si può insistere, con una cocciutaggine sesquipedale, nel mantenere inalterata l’analisi classica o ortodossa, l’esaltazione e l’intoccabilità di questo mercato (dove non c’è mai stata una simile sperequazione e concentrazione di ricchezza nella storia del mondo) riscoperto dopo aver messo in pensione il keynesismo, che probabilmente serve ancora, così come le scelte di programmazione democratica, di politica industriale e di politica, quella che nessuno conosce più dopo l’intreccio tra giustizialismo e spirito “devoto all’avidità” esploso negli anni Novanta, in Italia particolarmente ma non solo.

La situazione è talmente complessa che non rischia solo la tenuta economica del capitalismo occidentale, rischia la stessa democrazia.

Colin Crouch, docente dell’Università di Warwich, scrive un capitolo dal titolo complesso ma chiaro: “I paradossi delle privatizzazioni e delle esternalizzazioni di servizi pubblici”. Crouch conclude in questo modo con un richiamo preciso: “Il predominio delle grandi imprese implicito nel neoliberismo effettivamente esistente mette in discussione la sua compatibilità sia con l’ordine di mercato sia con la democrazia politica”.