Moriva dieci anni fa, il 17 luglio 2007, Vincenzo Maranghi. Se ne andava a quasi 70 anni (li avrebbe compiuti il 3 agosto), dopo una lunga e dolorosa malattia, che pure aveva sopportato con coraggio, ma anche con lo spirito ironico e intelligente che lo contraddistingueva. E con una fede cristiana che, lui, laico inossidabile, possedeva e viveva come ormai pochi, in questa Italia dagli ideali scarsi, o in genere, più clericali che cattolici.



In una delle poche interviste che aveva rilasciato nella sua vita, Maranghi disse a Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera, pochi mesi prima della morte, che in fondo era sereno di “ritornare dal Padre” e, come al solito, trovò la battuta giusta per prendere in giro se stesso: il cappellino bizzarro che ho sulla testa, per nascondere gli effetti della chemioterapia, non vuole farmi passare per Anatole France. Forse una battuta troppo intelligente per gli attuali tempi culturali. 



Quel 17 luglio 2007 è quasi la data di una grande nemesi. Mentre Maranghi, prima  delfino di Enrico Cuccia e poi numero uno di Mediobanca, se ne andava, il mondo dei “vincitori”, degli innovatori delle banche e delle istituzioni finanziarie, che aveva predicato il nuovismo di scuola McKinsey, con una prosopopea ridicola, provinciale  e patetica, si apprestava ad affrontare la più grande crisi finanziaria del dopoguerra, con cui siamo ancora costretti a fare i conti

E la crisi era proprio il frutto della nuova filosofia dei banchieri d’assalto e, se ci è permesso, dire, visti i risultati, dei banchieri del menga.



Maranghi usciva da Mediobanca l’11 aprile 2003, dopo una banale congiura “da strapaese”, apertasi da tempo, ma esplosa in un consiglio di amministrazione della primavera del 2002, che un giorno sarà il caso di pubblicare integralmente (ci sono tante testimonianze e forse anche la registrazione integrale), per vedere in quali mani è caduto il sistema bancario italiano in questi anni. 

Per comprendere invece quanto Maranghi fosse amato dai dipendenti di Mediobanca, occorre ricordare quell’11 aprile, con tutti i lavoratori della grande banca d’affari alle finestre, che salutavano commossi quel “caratteraccio” che non risparmiava urlate e scenate, ma amava come pochi, con un dedizione totale, il suo lavoro, la sua banca e le istituzioni che si diceva onorato di servire. Pensate invece a come sono amati oggi i banchieri!

Tanti sanno che cosa ha rappresentato Mediobanca nello sviluppo italiano. Cuccia aveva sintetizzato bene, con una battuta, la missione che aveva dovuto compiere: “fare le nozze con i fichi secchi”. 

Ma dai tempi di Raffaele Mattioli, il grande presidente della Banca Commerciale, si sapeva che il capitalismo italiano, quello delle grandi aziende, era soprattutto costituito da “capitani di sventura”, con pochi soldi, molti debiti e anche qualche vizio. Uomini in genere poco lucidi e strategicamente quasi incapaci di muoversi. 

Mediobanca sapeva invece muoversi con grande capacità, anche se doveva fare i conti con una realtà incredibile, e aveva relazioni e riconoscimenti internazionali di prim’ordine.

La raccolta delle relazioni di inizio d’anno fatte da Cuccia dimostrano il disagio, sopratutto quella del 1978, di continuare a incoraggiare una “grande borghesia” a tratteggiare una vera strategia. “Vaste programme”, avrebbe sentenziato il generale De Gaulle, perché la borghesia italiana, tranne che in pochi casi, si rivelava per quella che Giorgio Amendola definiva “borghesia stracciona”. 

E paradossalmente c’era invece la grande capacità dei medi imprenditori di essere protagonisti nel mondo. C’è stato un momento che a Mediobanca si coniò il termine “quarto capitalismo” per indicare questa media imprenditoria internazionalizzata. Se esiste oggi un’anagrafe della media e piccola imprenditoria, lo si deve proprio a Mediobanca. Fu Cuccia a incoraggiare Fulvio Coltorti (capo dell’Ufficio studi di Mediobanca) a scoprire quante realtà imprenditoriale esistessero. Coltorti, tra mille difficoltà, ci riuscì in quasi venti anni di sforzi, anche di fronte a una burocrazia ottusa.

L’eredità che Maranghi ricevette da Cuccia fu importante, ma durissima da gestire. I nuovi banchieri rampanti volevano la “felicità degli azionisti”, avevano riscoperto la “banca universale” (quella che fa trading con i soldi dei correntisti), pretendevano che la banca si arricchisse, che facesse valore e che, ovviamente, non fallisse. 

Poi hanno predicato le famose stock option, rendendo i banchieri una sorta di professionisti a contratto e non dei rappresentanti del proprio istituto di appartenenza; hanno predicato i derivati e persino i derivati dei derivati.

Mentre Maranghi rinunciava alle stock option e non voleva neppure sentire parlare di derivati, c’era il “nuovismo” di Alessandro Profumo (una vita di disastri bancari) a farla da padrone. C’era la furbizia di Cesare Geronzi e la sgangherata abilità del governatore Fazio, che preferiva a Mediobanca i Fiorani e forse anche i Ricucci. Infine c’era la sfilza dei “babbei”, con il loro grande capo, il professor Romano Prodi, uno dei comici involontari di questo Paese.

Nella sua splendida casa di corso Magenta, proprio davanti a Santa Maria delle Grazie, Maranghi, negli ultimi anni di vita, una volta esautorato, guardava e qualche volta spiegava quello che puntualmente si sarebbe verificato. 

Lo faceva con la tipica parsimonia di chi era legato al mondo della discrezione. Ma si capiva che i suoi obiettivi di riformare una Mediobanca sulle “popolari” non gliela avrebbero mai fatta realizzare.

Sempre gentile, rispondeva con una scrittura chiarissima a lettere e bigliettini, senza mai lasciarsi andare nei giudizi. Solo una volta, a chi scrive queste note, rispose in modo appena appena sopra le righe. Gli facevamo ugualmente gli auguri anche dopo l’11 aprile 2003, scrivendogli che “in fondo la storia l’hanno fatta i Guermantes e non le madame Verdurin”. Lui rispose in questo modo: “I suoi riferimenti proustiani sono calzanti, ma, mi creda, la realtà di questo paese supera il romanzo”.

Comprendemmo che stava morendo quando l’ultimo biglietto di risposta arrivò scritto a macchina, solo firmato a penna. Non ce la faceva neppure più a scrivere e si scusava per il ritardo di una risposta. 

Un signore di altri tempi e un grande uomo che, naturalmente, l’Italia uscita dalla sua “rivoluzione di velluto”, dalla Tangentopoli dipietrista e davighiana si è mangiata. Creando molti poveri e pochi ricchi. E’ una delle classiche “rivoluzioni a rovescio” di apprendisti stregoni.

Quando si va al piccolo cimitero di Greco, sulla tomba quasi militare nella sua essenzialità di Maranghi, viene inevitabilmente in mente quale paese di rimbambiti sia cresciuto in questi anni sventurati. 

A parte Mediobanca, i “vizi” di Maranghi erano la pesca, le macchine sportive d’epoca, di cui Cuccia aveva il terrore, e la fotografia, con immagini splendide, che sono state raccolte in un libro che la signora Anna ci ha fatto gradito omaggio qualche anno fa.