L’immigrazione è diventata un’emergenza e la questione che attanaglia l’Italia, presa in una morsa se accettare o meno i profughi. In un mare piatto estivo, non mosso da un filo di vento, una barca a motore ci metterà un paio d’ore ad attraversare lo stretto di Sicilia. E se anche il motore mancasse una truppa di mediocri rematori coprirebbe la stessa distanza in una giornata o giù di lì, come succedeva ai tempi dei greci, dei punici o dei romani. In queste condizioni, quindi, chiaramente la questione dell’immigrazione è mal posta.
Gli uomini arrivano e né noi, né altri abbiamo (giustamente) lo stomaco di ammazzarli in mare. Il punto dunque non è accettare o meno i profughi, ma cosa fare per impedire che questi vengano in Italia: bloccarli nei luoghi d’origine, in Libia. La stessa cosa di fatto avvenne in Albania negli anni ‘90 quando il Paese sembrava si stesse svuotando per trasferirsi armi e bagagli dall’altra parte dell’Adriatico. Allora l’Italia bloccò l’ondata contribuendo a rafforzare le strutture statuali albanesi, franate dopo la fine del comunismo.
Negli anni scorsi l’Italia ha lavorato alacremente intorno a questa ipotesi cercando di cucire e ricucire alleanze e coalizioni volte a ricreare una qualche apparenza di Stato libico che quindi fermasse l’ondata di profughi. Essi stavolta non provengono solo da uno staterello balcanico, ma dal pozzo senza fondo del miliardo di popolazione africana. Tutti questi tentativi sono falliti, com’è fallita l’astuta ipotesi di pagare i beduini del deserto perché arrestassero in mezzo alle dune i mercanti di nuovi schiavi che guidano i disperati disposti a pagare con tutti i loro risparmi il passaggio verso nord.
Siamo tornati quindi nei fatti a un’ipotesi avanzata da Egitto, Francia e Gran Bretagna anni fa di dividere la Libia. Questa ipotesi finora è stata duramente osteggiata da Roma per timore di perdere una preziosa area di influenza in Africa. Ma oggi il problema non è perdere una base in Nord Africa, il rischio è perdere il sud Italia ed estendere il caos nord africano all’Europa. La Libia non è più la sponda sud dell’Italia, l’Italia ha il pericolo di diventare la sponda nord della Libia.
I profughi non sono solo un problema umanitario, sono molto più gravemente un problema di sicurezza di crimine organizzato. I profughi arrivano in Libia grazie a una rete ben strutturata di moderni mercanti di schiavi i quali sono collegati con pezzi di criminalità organizzata italiana, che così aumenta introiti, canali di traffico lecito e illecito che pesano poi sul Paese. A questa criminalità italiana viene delegata nei fatti un pezzo di sicurezza pubblica: i mafiosi di turno possono fare arrivare la gente purché essi aiutino a prevenire il terrorismo. Il patto non è sciocco e ha numerosi nobili precedenti, ma sarebbe semplicemente meglio che il traffico non ci fosse perché concede di fatto pericolosi margini di potere a organizzazioni criminali.
Le pressioni oggi di Austria e Ungheria contro il passaggio dei profughi nel resto dell’Europa accorcia i tempi per il governo. Di fatto il sud si destruttura ulteriormente, il nord è sotto pressione dal resto d’Europa e l’Italia rischia così di implodere socialmente prima che economicamente e politicamente. Occorre quindi girare il tavolo. Non piangere con l’Europa per aiuti che non arriveranno o se arriveranno saranno a prezzi sempre più alti. Occorre invece che l’Italia risolva i problemi e non li crei: deve organizzare una tripartizione della Libia. Il governo deve mettere intorno a un tavolo Egitto, Tunisia e Algeria che direttamente o indirettamente si prendano, come del resto vogliono, prendersi pezzi di quella che era una volta lo Stato libico. L’Italia favorisce e aiuta questa divisione e in cambio chiede diritti commerciali a tutti e tre. Questa soluzione poi, se ben gestita, fa guadagnare punti all’Italia anche con il resto dell’Europa e l’America.
La ripresa del controllo del territorio fermerebbe in tutto o in gran parte il flusso dei profughi e poi porrebbe le premesse per ripensare ampiamente un nuovo ordine mondiale, franato gradualmente dopo l’11 settembre, con conseguenze fino alla Cina. La guerra in Iraq, poi in Afghanistan e quindi oggi in Siria ha sbriciolato molte unità territoriali che resistevano dalla fine dell’impero Turco, dopo la Prima guerra mondiale, nel 1918. Tale ordine post turco era stato consolidato con la Seconda guerra mondiale. Oggi tale ordine non esiste più. Un’ampia area tra Turchia, Siria, Iraq è terra di nessuno in cui non si sa chi e come dovrebbe averne controllo e darne conto a livello internazionale.
Lo stesso è in Afghanistan, fino al confine con la Cina, divisa in varie aree di influenza, tribali, come e peggio che nel 1700 e nel 1800 quando Russia dal nord e Gran Bretagna dal sud muovevano pezzi nel grande gioco dell’Asia centrale, schiacciando l’impero Moghul, quello Persiano e la Cina, peraltro concentrata su stessa alla presa con i Manciù che dovevano imporsi sul territorio dei Ming.
Questi territori hanno bisogno di nuovi confini, di nuovi attori statali, che non siano la semplice restaurazione di “Siria”, “Iraq” o “Afghanistan”. Nel 1911 la guerra dell’Italia contro la Turchia, che prese alla Sublime porta Libia appunto, suonò la campana a morte dell’impero Turco. Quel conflitto fu il prodromo del nuovo ordine mondiale che sarebbe arrivato pochi anni dopo alla fine della grande guerra. Un secolo dopo forse l’Italia è di fatto di nuovo davanti alla possibilità di contribuire al nuovo ordine mondiale, e contemporaneamente a salvare se stessa. L’idea di Libia non è più sostenibile, che allora venga divisa.
In questo modo Roma acquista punti con tutti, a sud e nord del Mediterraneo. La fine del tabù dei confini definiti dal 1918, dopo la prima guerra appunto, potrebbe aiutare a ripensare cosa fare in Siria, Iraq e Afghanistan. Quest’ultimo è oggetto di timori e mire di Pakistan, India e Cina, oltre che di tutti i vecchi attori occidentali. Onde positive dalla Libia potrebbero arrivare quindi fino in Centro Asia, mentre viceversa onde negative qui avrebbero ugualmente riflessi globali.