Anche il Fondo monetario internazionale rivede al rialzo le stime di crescita italiana, indicando un incremento dell’1,3% del Pil, che segnerebbe un leggero consolidamento della ripresa. E il tutto viene inquadrato in una risalita degli indici economici dell’intera eurozona, mentre in controtendenza sarebbero gli Stati Uniti e la Gran Bretagna della “Brexit”, entrambi in difficoltà. L’impressione tuttavia è che ci siano ancora contraddizioni sui dati di crescita e che la strada della fuoruscita sia sempre difficoltosa.



Il discorso vale per l’Italia, dove i livelli di disoccupazione e di povertà assoluta e relativa sono sempre da spavento. E un Pil che sale dell’1,3%, se così sarà, non risolve neppure il problema di qualche posto di lavoro. Ma vale in fondo per tutto l’Occidente, dove la struttura del capitalismo finanziario attuale ha creato delle diseguaglianze sociali di una tale portata, che è problematico ritenere che esista una buona tenuta politica e sociale, come invece sembrano indicare gli “esperti” dei grandi organismi internazionali economici.



In Italia vedremo abbastanza presto i dati conclusivi, i conti da fare con la finanziaria di autunno, i nodi da sciogliere con una pressione fiscale asfissiante. Per tutta l’eurozona, valgono sempre le parole di Mario Draghi, che indica la ripresa, ma la considera ancora limitata e soprattutto occorrerà vedere che cosa capiterà quando si porrà fine al Qe, all’intervento sull’acquisto della Bce dei bond di Stato, che in tutti questi anni, malgrado un’inondazione di liquidità, hanno mantenuto i livelli di inflazione troppo bassi.

Forse al termine del 2017, a conti fatti, si potrà stilare un bilancio, dopo dieci anni esatti dalla scoppio della grande crisi, sulla necessità di una riforma di questo tipo di sistema capitalistico: è da rivedere profondamente e da correggere, oppure è solo in una fase di assestamento storico? Insomma, occorrerà ripensare o no a questo neoliberismo che, secondo alcuni, ha impoverito e marginalizzato interi ceti sociali in Occidente, oppure vale la pena di spingere ancora di più sull’acceleratore ? E quali sono i rapporti tra questo tipo di struttura economica e la democrazia rappresentativa?



Mentre si discute, in tutte le grandi università del mondo e tra i grandi analisti economici di questi fatti, noi assistiamo in Italia a un tourbillon politico di dimensioni impressionanti. Il calcolo approssimativo, probabilmente fatto a spanne e non corrispondente alla realtà, è che durante questa legislatura ci sia stato un cambiamento di circa 500 “casacche” di partito o di movimento. Forse il dato non è esatto, ma ha anche poca importanza, perché quello che conta è la tendenza a un rimescolamento continuo, a un’incertezza non tanto ideologica (quella oramai interessa pochi “disperati”) , ma soprattutto di scelta politica.

Nel giro una legislatura, o se si allarga l’orizzonte a sei anni di tempo, si è assistito a aggregazioni e a disaggregazioni che non hanno riscontro in altri Paesi occidentali e nello stesso tempo, dopo tentativi di ogni tipo, si ritorna sempre al passato prossimo. È una sorta di eterno ritorno inconsistente.

Cerchiamo di inquadrare il panorama politico italiano. Nel 2011 la caduta di Berlusconi segnava, per la maggioranza degli osservatori, lo “spartiacque” tra le cosiddette “seconda” e “terza” repubblica. Quando Mario Monti entrò in politica con tutta la prosopopea del “professore” e del senatore a vita, sembrava che fosse arrivata la svolta che tutti aspettavano: un consolidamento della sinistra democratica (che in Italia è sempre stata minoranza) e una rifondazione del centro su basi laiche e non democristiane. Insomma, era veramente finita la prima repubblica? Era veramente arrivava la seconda, quella che Bettino Craxi definiva ironicamente: “È come l’Araba fenice, tutti sanno dove è, ma nessun lo dice”.

Sono bastati duri anni di crisi, di tentativi andati male e l’insuccesso dei nuovi protagonisti, da Monti alla Fornero, da Letta allo stesso Renzi, con il codazzo dei Grillo, dei sempiterni Bersani e D’Alema, per riportare l’orologio al tempo dello scontro tra Berlusconi e Prodi: roba da 1996. Oggi il panorama politico italiano è il seguente: primo partito quello dell’astensione e del non voto; secondo partito i “pentastellati” del comico; terzo il Partito democratico del “rottamatore” Renzi, Poi in fila indiana: Forza Italia, Lega Nord, Fratelli d’Italia, Quindi, altri dispersi della sinistra alternativa, Tutto semplice? Niente affatto, perché se si “gioca” alle coalizioni, rispunta il viso sempre sorridente del “mi consenta”, al secolo il Cavaliere Silvio Berlusconi, come “capo” di una coalizione che viene battuta solo dal partito dell’astensione. Sembra una paradossale astuzia della storia.

La realtà è che c’è un equilibrio talmente precario, un intreccio talmente complicato tra situazione economica, problematiche sociali e rappresentanza politica, che lo sbandamento dell’elettorato va, al momento, tutto verso destra, verso una soluzione già tentata, già fallita, ma preferita, quasi per dispetto, alla politica che si è imposta in questi anni, quella basata sulla precarietà e sui tentativi falliti di fuoruscita dalla più grave crisi dal dopoguerra.

Vista in questa prospettiva, quella che dovrebbe essere la “seconda repubblica” è una sorta di “giostra”, dove ogni tanto scende uno, poi sale un altro, poi ridiscende un altro e poi risale qualcuno. È un movimento continuo e noioso, dove prevale nell’elettorato e nell’opinione pubblica una insoddisfazione di fondo e un disincanto drammatico per il futuro della democrazia. Destra e sinistra (che esistono eccome anche in questa confusione politica) diventata solo l’oggetto del desiderio di qualche anno o di qualche mese.

La “giostra” politica italiana è emblematica, ma i segni di una crisi democratica in tutto l’Occidente si colgono un po’ dappertutto. Spariti i socialdemocratici in quasi tutta Europa, persino nella Francia reduce da due mesi dalle urne, il “nuovismo” post-ideologico di Emmanuel Macron ha perso 10 punti in percentuale di consenso. E al ballottaggio che lo ha portato all’Eliseo, andò a votare solo il 45% dei francesi.

Di fatto, il frutto più amaro di questa e quello della svolta che l’ha provocata è la confusione, la “giostra” politica, la perdita d’identità dei vari ceti sociali. Forse si aspetta l’ultimo colpo: la completa perdita di capacità critica delle classi dirigenti politiche. In fondo, questo grande tourbillon giova solo al “fortino” della ricchezza finanziaria. Difficile dire per quanto tempo può durare una simile situazione. Anche l’eterno ritorno al passato prossimo alla fine stanca. Soprattutto se non si risolvono i problemi reali.