Fra meno di tre mesi (il 22 ottobre) una comunità (la lombardo-veneta) di 15 milioni di persone si appresta a chiedere alla propria dirigenza nazionale, a stragrande maggioranza, di mettere in pratica da sola – in casa propria – delle competenze per le quali ha dimostrato nei suoi 46 anni di esistenza di possedere le capacità e, soprattutto, i soldi necessari, frutto di una “paghetta” avara, ma molto bene amministrata. Per bocca del suo Presidente, una comunità confinante di ulteriori 4 milioni di cittadini (quella emiliano-romagnola) ha manifestato lo stesso interesse, pur se non lo esprimerà con lo stesso megafono (il referendum) scelto dall’altra, per una questione di costi, che ritiene rappresentino uno spreco. 



Sottolineo questa espressione, tirata in ballo anche da esimi colleghi economisti, perché trovo assolutamente futile irridere all’importante iniziativa adottata dai Presidenti delle due Regioni impegnandosi in una spesa che assommerà in totale a 30, massimo 50 milioni di euro, ovvero due-tre euro pro capite per la comunità che ha preso l’iniziativa. Questo sarebbe il costo della richiesta – democraticissima – di maggiore autonomia da parte dell’area più europea di questo Paese purtroppo fortemente “asimmetrico”! Come estimatore della Repubblica elvetica mi chiedo: come fa la Svizzera a reggere il costo del ricorso sistematico e obbligatorio ai referendum previsto dalla propria Costituzione anche per questioni secondarie?



Un chiarimento che ammetterei si potrebbe/dovrebbe legittimamente chiedere alla politica riguarda la sopportabilità dell’ampliamento delle spese coinvolte da parte dei bilanci regionali e come affrontarla. Qui la parola spetta innanzitutto alle cifre, ma la conclusione sarebbe definitivamente lasciata alla politica. In uno studio di qualche tempo fa, precedente la richiesta di referendum da parte delle due Regioni, l’Unioncamere Veneto insieme al (veneto) Centro Studi Sintesi avevano elaborato calcoli sull’ impatto della realizzazione del “federalismo differenziato” derivante dall’applicazione del trasferimento delle funzioni dal centro alla periferia possibile ex art. 116, terzo comma, proprio quello che viene proposto agli elettori a nord del Po. Lo studio prendeva in considerazione, oltre alla Lombardia e al Veneto, anche l’Emilia Romagna e il Piemonte, considerando come materie su cui si concentrerebbe il potenziamento delle competenze regionali: l’istruzione, le infrastrutture regionali, la protezione civile e i beni culturali. 



Orbene, dallo studio emerge (vedasi la tabella più sotto) che se le quattro Regioni avessero chiesto per sé tutte le funzioni “disponibili”, nel 2009 il pacchetto da distribuire sul territorio sarebbe stato dell’ordine dei 16 miliardi di euro, di cui più di 11 miliardi afferenti l’istruzione e 2,3 miliardi concernenti le infrastrutture. Lombardia e Veneto acquisirebbero il 60% circa di tale “bottino”, Emilia Romagna e Piemonte il restante 40%, concentrato però sulle infrastrutture più che nelle altre due Regioni. 

Il risultato – concludeva lo studio – sarebbe un’Italia a tre velocità, con in vetta (ovviamente!) un blocco di Regioni a Statuto speciale da 9 milioni di persone, un gruppo intermedio (quello del federalismo differenziato o “asimmetrico”, di cui stiamo parlando) includente 23,4 milioni di abitanti e 11 Regioni ordinarie residue abitate dai restanti 27,5 milioni di cittadini. Pur apprezzando l’originalità del quadro comparativo conclusivo proposto dagli autori, qui si preferisce affrontare il vero problema di fondo: di quanto si accrescerebbe la spesa delle Regioni coinvolte? E donde proverrebbero le relative risorse? La risposta è la seguente: l’aumento del volume dei 4 bilanci, che nel 2009 ammontavano in totale a 60 miliardi, sarebbe dell’ordine del 26% (24% per la Lombardia): ancora poco, in proporzione, rispetto ai bilanci delle Regioni a Statuto speciale, ma comunque un bel salto in avanti. E qui si porrebbe la questione che tutti temono: copertura delle maggiori competenze mediante trasferimenti statali o riappropriazione dei “propri” tributi e quindi ridimensionamento dei due (o tre, se l’Emilia Romagna collaborasse) residui fiscali coinvolti, che oggi ammontano a circa 70 miliardi per il solo binomio Lombardia-Veneto?

Lo scrivente non vanta alcun tipo di contiguità con il mondo politico “impegnato” e operativo nelle due Regioni coinvolte, anche se ha collaborato negli anni con le due dirigenze istituzionali nel campo della finanza pubblica e delle relazioni finanziarie tra i rispettivi tre livelli di governo, oltretutto dopo avere vissuto da vicino, negli anni ‘70, l’evoluzione della “specialità” (costituzionale e finanziaria) della Regione Trentino-Alto Adige. “Vergin di servo encomio”, ovvero forte di questa indipendenza, ritengo mio dovere esprimere tutto il mio assenso all’iniziativa lombardo-veneta e, come emiliano, inviterei la Presidenza della Regione a “fare outing” e indire un referendum copia-incolla di quelli del lombardo-veneto. Sarebbe un modo di riproporre l’unità d’Italia coniugando le due sponde del Po.