La speranza è l’ultima a morire, dice un antico adagio. E qui la speranza di cui parliamo è quella di Sergio Mattarella, che auspica che entro la fine naturale della legislatura vi sia ancora modo di riscrivere le regole elettorali quel tanto che basta perché tra Camera e Senato non stridano troppo. Dopo un lungo silenzio, punteggiato solo di voci fatte trapelare dal Colle, il capo dello Stato è tornato a far sentire la sua voce sulla questione dal Canada un po’ a sorpresa. 



Niente di assolutamente inedito, ma se il presidente ha sentito la necessità di precisare che si andrà con ogni probabilità alla fine naturale legislatura è perché c’è qualcuno che ancora a questa idea non si è rassegnato, e meritava una felpata tirata d’orecchie. E, al netto degli oppositori a prescindere fautori del voto subito, come Salvini e Grillo, l’unico indiziato non può che essere Matteo Renzi



Ma le parole di Mattarella ci lasciano capire anche qualcosa di più: che intorno alla partita della legge elettorale si giocano gli equilibri futuri delle alleanze fra i partiti, così come gli spostamenti dentro i partiti stessi. E’ un capitolo — quello della legge elettorale — ancora tutto da scrivere, e dal finale non scontato. Mattarella dice che il tempo c’è, anzi di più: lascia intendere che non sarà il Quirinale a cavare le castagne dal fuoco di una politica oltremisura litigiosa. Nessun decreto legge alle viste, quindi, a meno che non si tratti di un intervento limitatissimo e tecnico, per consentire ai due monconi di leggi uscite dalla mannaia della Consulta di funzionare, ad esempio tenendo conto della parità di genere in Senato. E’ questa la lettura autentica di quanto detto in terra canadese. Di conseguenza, se si arrivasse a fine legislatura senza passi avanti, si dovrebbe votare con le regole che ci sono.



Queste regole sono oggettivamente fra loro in contrasto: basti pensare che permettono le coalizioni al Senato (anzi le incentivano, abbassando la soglia di sbarramento dall’8 al 3 per cento su base regionale), mentre le vietano alla Camera, dove teoricamente il premio di maggioranza rimane, ma va alla lista che sappia raggiungere il 40 per cento, quota oggi più alta dell’Everest per tutti e tre i poli in campo.

Di premio alla coalizione Renzi non vuol sentir parlare, e vorrebbe cancellarlo anche al Senato. Ma dentro il Pd deve fare i conti con un fronte sempre più ampio che gli chiede un ripensamento, alla luce della constatazione che da soli i democratici non hanno oggi alcuna possibilità di vittoria. Secondo alcuni sondaggi rischiano addirittura di arrivare terzi, dietro il risorto centrodestra (se saprà unirsi) e i grillini. 

La mazzata delle amministrative non ha smosso Renzi di un millimetro, mentre ha provocato un maremoto nella pancia della balenottera rosa. Con il suo principale alleato, Franceschini, è sceso il gelo: il segretario non si fida più di lui, mentre il ministro della Cultura gli chiede di lavorare a ricomporre il centrosinistra, perché la linea politica di autonomia è sbagliata. Prodi ci ha provato a far da pontiere, ricevendo dai super renziani solo scudisciate ingenerose. E il competitor del segretario alle primarie, il ministro Orlando, annuncia la richiesta di un referendum fra gli iscritti nel caso in cui all’indomani del voto si voglia fare un governo di larghe intese con Berlusconi. 

Quest’ultima mossa significa che nessuno si fida delle smentite del leader. Lo indicano tutte le simulazioni del prossimo parlamento: il Pd da solo sarebbe oggi lontanissimo dalla maggioranza assoluta, e potrebbe sperare di arrivarvi solo se Berlusconi avesse un buon risultato. E potrebbe persino non bastare. 

Orlando e Franceschini chiedono quindi di lavorare a recuperare i rapporti con la sinistra di Pisapia, per allargare il consenso. Ma la manifestazione di Piazza Santi Apostoli è stata vissuta con fastidio dallo stato maggiore renziano, non con il rispetto che sarebbe dovuto a un prossimo futuro compagno di strada. Se Renzi testardamente respingerà ogni richiesta di cambiare rotta, l’autunno potrebbe essere molto agitato dalle parti di Largo del Nazareno: o una resa dei conti interna, che sarebbe molto dolorosa, o nuove fuoriuscite in direzione di Pisapia. Oppure tutte e due le cose insieme. Il terrore di andare a sbattere potrebbe funzionare da poderoso detonatore. 

Di questo scontro intestino nel Pd potrebbero avvantaggiarsi logicamente gli altri due poli: i grillini, che contano di rilanciarsi vincendo il 5 novembre le regionali siciliane (guarda caso Pietro Grasso ha rifiutato di fare l’agnello sacrificale), ma soprattutto il centrodestra. 

Berlusconi e Salvini rimangono oggi molto distanti. Ma l’inatteso successo alle amministrative di giugno ha fornito molto carburante ai pontieri, che si sono immediatamente rimessi in moto per riavvicinare le posizioni. Una legge elettorale che favorisse le coalizioni sarebbe l’ideale. Il problema è che lo sanno anche gli avversari.