Premio di coalizione, ora è lui l’oggetto del contendere, la pietra dello scandalo, il terreno su cui si misura non soltanto la possibilità di trovare un accordo sulla nuova legge elettorale, ma soprattutto un minimo di coesione nel Pd. Premio di coalizione, ovvero un sistema che alle elezioni attribuisce seggi in più non al partito singolo, come Matteo Renzi ha sempre voluto, ma al gruppo di forze politiche che sostengono un candidato premier. Ora i sostenitori del premio di coalizione sono Silvio Berlusconi e la minoranza democratica. Gli interessi sono opposti ma convergenti: il Cavaliere, che da tempo vede soltanto con il binocolo il 15% e nemmeno dagli ultimi sondaggi viene accreditato di una dote simile, lo considera l’unica possibilità di convincere Salvini e Meloni a trovare un accordo; la sinistra interna al Pd invece punta a riaggregare la diaspora del Pd, riunendo l’arco che va da Vendola a Bersani, da D’Alema a Pisapia.



È il modo per spuntare le armi di Renzi: coalizione significa trattare, mediare, l’esatto contrario del profilo che vuole tenere il segretario del Pd, quello dell’uomo solo al comando. Presentando ieri il suo libro-manifesto “Avanti” in provincia di Napoli, Renzi ha detto che il dibattito sul premio di coalizione “è assurdo” in quando “il premio c’è già al Senato e il Mattarellum prevede comunque un premio”. Che va al candidato più votato, indipendentemente che egli si presenti come rappresentante di un solo partito o di una coalizione. “Noi – ha aggiunto – abbiamo fatto diverse proposte di legge elettorale ma ce le hanno bocciate tutte”. Quanto al premier, “chi va a Palazzo Chigi lo decidono i voti degli italiani, non i giornalisti e nemmeno le speranze dei militanti”: parole sante, dette da uno che gli ultimi voti popolari li ha presi da candidato sindaco di Firenze.



L’obiettivo della spacconata sono proprio “le speranze dei militanti”, cioè una frecciata alla minoranza interna con cui ormai Renzi litiga più che con i giornalisti. La minoranza vuole il premio di maggioranza: un bel paradosso. Il fatto è che senza la coalizione Renzi avrà mano libera nella composizione delle liste, dove infilerà soltanto i suoi fedelissimi. Da Orlando ai prodiani, per non parlare di Franceschini che pure è l’alleato di ferro di Renzi ma teme di essere trattato come gli altri, c’è una fronda che prepara un blitz a ottobre, quando la legge elettorale tornerà all’attenzione dei partiti, ed è una fronda che non si fa problemi a trattare con il diavolo pur di sgambettare il leader Pd: così si spiega l’incontro tra Pierluigi Bersani e Gianni Letta. Sotto sotto si sta tramando tra una certa sinsitra e Berlusconi. Il lavorio sotterraneo dei prossimi due mesi sarà verificare se esiste veramente una maggioranza atipica in grado di approvare alle Camere un sistema elettorale inviso al leader del primo partito italiano, il Pd.



Il fronte anti Renzi corre un rischio serio: quello di fare il gioco non della sinistra ma del centrodestra. Quasi meglio che vinca Berlusconi, si mormora, piuttosto che non vinca nessuno costringendo Bruxelles a commissariare sul serio l’Italia. Meglio il Caimano che Grillo o la troika europea, la quale risponde non agli elettori italiani ma ad Angela Merkel. L’obiettivo, in realtà, non è spianare la strada al Cav che non riesce a tenere uniti i suoi nemmeno in Sicilia, dove vorrebbe candidare Alfano scontentando Salvini, Meloni e mezza Forza Italia.

La minoranza interna al Pd vorrebbe fare cadere Renzi in autunno per puntare alla riaggregazione con Pisapia, l’uomo che non volle essere sindaco per due mandati e non vorrebbe nemmeno farsi rieleggere in Parlamento. Una bella sfida, che Renzi però rimanda al mittente. E ha i suoi buoni motivi. Primo, la minoranza del Pd difficilmente troverà i numeri necessari per il ribaltone. Secondo, Berlusconi non riesce a tenere insieme una coalizione (che sulla carta supererebbe il 30 per cento) a Palermo, figurarsi in vista della riconquista di Roma.