La questione della legge elettorale è stata rinviata a settembre e il presidente Mattarella dal Canada ha ribadito che è compito del Parlamento provvedere a deliberare la nuova legge con cui si voterà nella prossima primavera.

Il rinvio deriva dal fallimento nelle settimane scorse dell’accordo che vedeva insieme il Pd, il M5s, FI, la Lega e occorrerà una nuova mediazione. 



Tuttavia, il rinvio a settembre può risultare utile se la discussione politica di questa estate risulterà produttiva.

Proviamo a farne il punto.

I partiti, tutti, senza esclusione alcuna, hanno difficoltà ad approvare una legge elettorale secondo i dettami delle sentenze della Corte costituzionale; valga per tutti il caso del voto di preferenza. In primo luogo, nessun partito, neppure il Pd, è in condizione di gestire le preferenze come accadeva un tempo, quando la politica era partecipazione e non mera leadership. In secondo luogo, e soprattutto, nell’era delle leadership se il capo non dispone delle candidature non ha nessun effettivo potere di comando. E allora, tutti sono d’accordo per non fare una legge elettorale onesta.



Tuttavia questa circostanza, paradossalmente, potrebbe essere un buon auspicio per la nuova legge elettorale, anche se adesso le posizioni si sono ancora una volta differenziate.

Dopo il voto amministrativo, Salvini — che avrebbe votato con qualunque sistema — invoca un centrodestra unito e una legge maggioritaria con un premio. Renzi, che voleva votare subito, si è piegato sui tempi al volere del presidente della Repubblica, ma di fatto spinge ancora il suo partito in una logica unipolare, puntando al voto utile per il premio, magari ribassato dal 40 al 36 per cento. Anche il M5s, per bocca dei suoi giovani “portavoce”, spingerebbe in questa direzione.



Sostanzialmente questi leader giovani sono figli di una politica fatta di contrapposizioni insanabili, dove si fa coincidere il bene del Paese con il governo di un solo partito; Salvini in fondo condivide questa impostazione, legata al mito di una Lega nazionale che possa puntare alla logica unipolare, anche se non subito e anche se al momento è costretto a invocare il maggioritario di coalizione.

Con questa logica a settembre ci saranno solo poche modifiche da fare alle leggi elettorali, essenzialmente due: prevedere un premio del 15 per cento alla forza che raggiunga il 36 per cento dei voti validi, che porti i seggi del primo partito a 316 alla Camera e a 158 al Senato, e il disegno delle circoscrizioni e dei collegi in modo da evitare il voto di preferenza e da riempire le liste di nominati che nulla hanno a che fare con i territori, ma che siano — almeno all’inizio — fedeli al leader che li ha inseriti in lista.

Con questa logica, però, la XVIII legislatura corre il rischio di essere peggiore della XVII.

Non è un caso che in questi giorni assistiamo nel dibattito pubblico anche ad altre prese di posizione, guarda caso da parte di due politici anziani che si sono a lungo contrapposti: Berlusconi e Prodi, anche se insieme, proprio loro, hanno fatto accordi politici importanti, non ultimo la presidenza Ciampi

Il primo è a favore del governo di coalizione e invoca il proporzionale, nella logica di un sistema che possa favorire delle aggregazioni politiche, anche ex post, in grado di assicurare la governabilità. Non necessariamente i suoi interlocutori devono essere la Lega e FdI. Berlusconi, con le previsioni di consenso attualmente indicate dai sondaggi, parte dal presupposto — non sbagliato — che solo aprendo le formule del maggioritario sia possibile creare nuovi scenari politici.

Prodi, detto non a caso il “federatore”, invece, fa un discorso leggermente diverso, ma che si conclude nella stessa direzione. Il professore auspica un governo di centrosinistra e afferma che la sinistra ha vinto solo quando ha saputo costruire attorno a sé una coalizione, mentre ha sempre perso nelle sue pretese (o “vocazioni”) maggioritarie. 

In questo dibattito, perciò, sembra essersi formato un dualismo di posizioni, che — parafrasando Pirandello — potremmo definire “I vecchi e i giovani”.

Non si tratta di schierarsi con i vecchi, contro i giovani, o viceversa, bensì di essere consapevoli che un sistema politico come quello attuale, fortemente frammentato, difficilmente può dare vita a un governo parlamentare come quello previsto dalla Costituzione, se i diversi schieramenti non si rendono disponibili a nuove variabili e integrazioni. La forma di governo parlamentare, infatti, presuppone che le forze politiche siano capaci di legittimarsi sino in fondo per stringere tra loro accordi di governo anche temporanei.

Il governo parlamentare, peraltro, in Italia richiede coalizioni per due ragioni: la prima è che così è tutta la storia italiana repubblicana, e la seconda è che gli italiani si sono così abituati alle coalizioni che diffidano dell’ipotesi stessa di un governo di un solo partito; vedono nelle coalizione una garanzia perché i partiti di governo di fatto si controllano reciprocamente; gli italiani non sono inglesi ed è facile che la loro diffidenza possa giungere ad essere persino una vera e propria paura.

È alla luce di queste considerazioni che al momento sembra che i vecchi abbiano più ragione dei giovani, diversamente da quanto accadde nel libro di Pirandello.