Caro direttore,
sabato a Milano, con Renzi davanti ai circoli dem, e a Santi Apostoli a Roma con Bersani e Pisapia, sono andate in onda le parole d’ordine con cui il Pd e il “campo largo”, che si sta coagulando alla sua sinistra, si affronteranno da qui alla campagna elettorale. Da quello che si è ascoltato il tempo dei pontieri e del vinavil per mettere insieme prima del voto il Pd e questo “campo largo” è scaduto. Non è un caso che Prodi sia stato invitato, con poco garbo, a mettere le tende altrove dal Pd, se il vinavil include nella sua formula, per riattaccare tutto, la rinuncia a Palazzo Chigi di Renzi; disposto a discutere di tutto ma non di questo.
La formula del leader Pd è lapidaria: “Ascolto tutti, ma non mi fermo per nessuno”. Tradotto: l’unità del centrosinistra, se la volete, la fate attorno al Pd, cioè a me che ho vinto il congresso, controllo la direzione e il partito; e faccio le liste. Messaggio inequivoco per le perplessità e le critiche interne, da Orlando a Franceschini: “se vi mettete contro, siete fuori gioco”.
Dopo la sconfitta del 4 dicembre, Renzi non ha avuto altro schema di reazione che puntare al ritorno a Palazzo Chigi nel più breve tempo possibile, imbastendo un governo fotocopia del suo di cui è il leader ombra, e un congresso lampo per rinsaldare la sua presa sul partito e impedire che maturasse al suo interno un’alternativa alla sua segreteria. Il calcolo di chi è rimasto da “sinistra” nel partito sperando di condizionarlo si è rivelato illusorio. Il congresso è stato “costruito” per dare a Renzi una maggioranza in direzione autosufficiente anche dai suoi alleati congressuali.
Per mantenere quest’approccio alla gestione delle sconfitte nelle urne collezionate l’una dopo l’altra dopo le europee del 41 per cento, e tenere in piedi la sua leadership, Renzi ha bisogno di una sola cosa: che nessuna legge elettorale tocchi il punto per lui decisivo, i capilista bloccati. Che sono la chiave, da un lato, per intimorire i critici interni, dall’altro per costruirsi, nel prossimo parlamento, un partito a sua immagine e somiglianza disponibile a seguirlo in ogni trattativa sulla governabilità da assicurare in funzione anti 5 Stelle, e più ancora in ogni interdizione possibile a qualsiasi soluzione che non lo veda centrale e a Palazzo Chigi, anche a costo di mettere a repentaglio in un senso o in un altro la legislatura. Insomma il prossimo Pd saranno fedelissimi e un po’ di civismo d’immagine un tanto al chilo sensibile alla chiamata di “Matteo”.
Questa è la partita che sta giocando Renzi. È un azzardo per la prossima legislatura e per il Paese. Almeno per chi teme che i 5 Stelle non siano pronti a governarlo. Un azzardo cui magari porrà riparo un centrodestra in netto recupero, con un Berlusconi che ormai non esclude di poter fare a meno del leader Pd per tornare a contare sulle scelte per Palazzo Chigi. Ma questa è la strategia di Renzi. Ed ha la sua lucidità, per un leader che sa bene che rischia di diventare una promessa mancata.
A Santi Apostoli si è sentita tutt’altra parola d’ordine: “Insieme”, la necessità della politica di fermarsi ad ascoltare un’Italia sempre più in difficoltà, per capire come riportarla al centro dell’agenda politica della sinistra. E prima ancora al voto che ha ampiamente disertato, dalle regionali in poi, non sentendosi più rappresentata.
Un popolo largo e vasto il cui recupero a sinistra è l’unica possibilità di non consegnare il paese al centrodestra, prima ancora che alle sirene dei 5Stelle, come ha rimarcato Bersani in un intervento in fortissima sintonia con la sua piazza. Una possibilità che passa per la più netta discontinuità con le politiche dei tre anni di governo Renzi. Basta raccontare l’Italia dal lato di chi ce la fa, lasciando alla destra il bisogno di protezione che emerge in strati sempre più larghi del Paese.
Un bisogno di protezione che la sinistra può e deve assolvere con i propri valori. Questo è il messaggio che è partito da Santi Apostoli, e Pisapia ha ben rappresentato, chiudendo, la consapevolezza della sobrietà necessaria al leader che vuole interpretare questo bisogno, aggregando a sinistra politica e civismo e esperienze di centro democratico e ambientaliste.
È chiaro che su questi presupposti il dialogo reale tra Pd e la sinistra che si è messa in campo a Santi Apostoli con Bersani e Pisapia potrà esserci solo quando le urne avranno deciso, come ha sostenuto D’Alema, il peso dell’uno e dell’altra. E dal vento che tira solo un successo del progetto lanciato a Santi Apostoli potrà dare al centrosinistra i numeri per aspirare a giocare un ruolo centrale nella definizione della governabilità del sistema nella prossima legislatura.
Un Pd, che dalle prossime urne non si trovasse obbligato al dialogo con una sinistra unita e consistente, per i numeri che presumibilmente avrà da solo in uno scenario proporzionale, non sarà utile neanche a se stesso come Pd, ma al massimo alle prospettive politiche personali del suo leader.
E qui la linea di passaggio dal “più grande partito” che fu della sinistra europea a una “crisi del socialismo” senza Macron si farebbe sempre più sottile. In capo a chi nel Pd avverte la distonia del partito con l’Italia cui prima si rivolgeva e a chi a Santi Apostoli ha tracciato la correzione di rotta necessaria alla sinistra italiana, ci sono grandi responsabilità nei confronti di milioni di italiani che, fosse solo per la dignità con cui vivono le loro difficoltà, questa responsabilità la meritano.