“Divide et impera”, dicevano gli antichi. Sfrutta le discordie altrui, alimenta le rivalità, provoca spaccature nel fronte avverso e avrai un controllo migliore di quello che potrebbe garantirti un esercito. Matteo Renzi non è un retore latino ma un bulletto toscano, eppure applica alla perfezione la regola romana del potere. Non avendo grandi truppe per controllare i suoi consoli, il segretario Pd preferisce seminare zizzania se non sollecitare i malumori attorno a lui. Renzi conosce bene i vecchi della sinistra, quelli che non vogliono farsi rottamare, e sa che sono bravissimi a distruggere ma incapaci di ricostruire un percorso unitario. 



Paradossalmente, sono gli altri a lavorare per lui. Quella di Renzi non è certo una leadership a prova di bomba, il partito si fa sfilare sindaci importanti e perde pezzi verso sinistra; il governo di cui il Pd è principale azionista tira a campare visto che Gentiloni amerebbe tornare a rintanarsi in biblioteca e Padoan non ne può più delle intemperanze del rottamatore. Le difficoltà dell’economia non arretrano, l’Europa impone nuovi esborsi per la gestione dei migranti. Eppure le debolezze degli altri sono la forza di Renzi.



Era stato Silvio Berlusconi a sdoganare in politica il “faccio tutto io”. Il Cavaliere lo diceva allargando le braccia, con degnazione, come a rimarcare che lui era una personalità di spicco circondato da gente non alla sua altezza. Fossero tutti come me, non ce ne sarebbe per nessuno: questo era il suo retropensiero. Con Renzi è diverso, lui non vuole che nessuno gli faccia ombra, lo contesti, gli suggerisca strategie alternative. Se una volta la regola della politica era comporre gli interessi per dare rappresentanza a più istanze sociali possibili, oggi il principio è l’opposto. Un uomo solo al comando e gli altri a portare acqua al suo mulino.



Renzi ha gioco facile perché la sinistra che gli è ostile non riesce a creare un’alternativa credibile. Ha ragione Beppe Sala, sindaco di Milano, quando dice che tra Renzi e Pisapia non si arriverà a nessuna intesa. Ma è pur vero che nel segreto dell’urna il peso del “voto utile” sarà determinante e molti a sinistra, anche se Renzi gli sta cordialmente antipatico, preferiranno votare Pd piuttosto che sostenere pisapiani, bersaniani, vendoliani, civatiani, prodiani, lettiani e forse, in futuro, anche franceschiniani: tutti agguerriti contro il toscano, e tutti incapaci di mettersi d’accordo su qualsiasi altra cosa. In 350 parlano di coalizione, ha ironizzato Renzi riferendosi alle alleanze che sta cercando di tessere la Nuova sinistra, mentre lui dispensa bonus e alza le pensioni minime. 

La politica dei salotti contro quella dei risultati è una “narrazione” troppo facile. Resta però il fatto che quelli a sinistra del Pd sembrano litigare più tra di loro che con Renzi. I vendoliani accusano Pisapia di non essere “radicalmente alternativo” al Pd; i civici del teatro Brancaccio (guidati da Montanari e Zagrebelski) lo contestano perché ha votato Sì al referendum; gli scissionisti del Mdp appoggerebbero Pisapia se facesse quello che dicono loro. Di formare gruppi unici in Parlamento manco a parlarne. È la solita sinistra, che dopo vent’anni di antiberlusconismo è traslocata nel fronte antirenzista. E così pare che Renzi abbia ragione ad andare dritto per la sua strada solitaria, deriso da chi cerca coalizioni e convergenze purché escludano Berlusconi. E a cercare convergenze su una legge elettorale che gli garantisca l’unica cosa che gli interessa davvero: i capilista bloccati, la possibilità di scegliere chi mandare in Parlamento. Solo fedelissimi nella ferrea logica del “Divide et impera”.