Sergio Marchionne candidato premier per il “nuovo centrodestra” riesumato da Silvio Berlusconi? È stato lui, il Cavaliere redivivo, a lanciare la sua provocazione in un’intervista congiunta ai giornali dell’amico Angelucci, editore di Libero, del Tempo, del Corriere dell’Umbria e di Ciociaria oggi. “Per il centrodestra punto su Sergio Marchionne. Tra non molto gli scade il contratto negli Stati Uniti, e se ci pensate bene sarebbe l’ideale”, si è limitato a dire Berlusca. Ed è stato subito al centro delle cronache.



Inutile chiedersi se lo pensi davvero, è talmente abituato a mentire per cogliere interessi del momento che neanche lui sa più quando dice la verità, superato in questa deriva unicamente da Renzi, non a caso il vero erede impossibile che il Cavaliere avrebbe voluto avere per sé. Impensabile anche che abbia concordato l’uscita a sorpresa con l’interessato. Ma Berlusconi non parla a vanvera nemmeno quando straparla. E non va sottovalutato il senso – anzi: i molti sensi – di questa boutade.



Ce n’è innanzitutto uno, rivelato dalla reazione piccata di Giorgia Meloni, come sempre la più vivace ed esplicita del variegato e inconsistente plotone dei capetti del centrodestra: “Mi aspetto da Silvio Berlusconi una smentita. Immaginare come premier italiano uno che paga le tasse in Svizzera, ha portato la sede legale della azienda che dirige, la Fiat, in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna, pur avendo la presunzione di vendere macchine ‘italiane’, significa aver perso il lume della ragione”, ha detto la leader di Fratelli d’Italia, “significa non avere rispetto dei milioni di italiani che fanno i salti mortali per produrre e lavorare qui, che qui pagano le tasse e che non sono scappati dopo aver preso miliardi di euro dallo Stato italiano. Dopo Calenda, ministro del governo Renzi, e Mario Draghi, presidente della Bce, un altro nome incompatibile con la nostra idea d’Italia. Solo un patriota può aiutarci a uscire dalla palude. Marchionne non lo è. Berlusconi pare voler fare di tutto per dividere un centrodestra in grado di vincere”.



Chiaro, no? Se l’unica capetta che, per lo meno, parla in proprio ha respinto al mittente la provocazione del Capo, e l’ha fatto con questo tono tranchant, è segno che lei come gli altri meno titolati teme di essere rasa al suolo da qualche levata d’ingegno del grande federatore del centrodestra nazionale. Che ha quindi colpito nel segno: riaffermando con tutti i suoi che a decidere può essere soltanto lui. E che non riconosce a nessuno di questi qui il “quid” che serve, a suo avviso, per guidare il Paese rilevando il testimone dal rifondatore della destra italiana, destra di governo per 9 anni.

C’è da chiedersi cosa dirà Marchionne, se dirà. E cosa accadrebbe se accettasse, sospinto da un Ego che supera per incontenibilità perfino quello dello stesso Berlusconi. Da una parte sarebbe un candidato vincente, senza se e senza ma. Al cospetto delle mezze figure che il centrosinistra e i Cinquestelle mettono in campo, ometti scialbi o servitorelli del capo di Rignano, uno come Marchionne giganteggia, li oscura completamente con la forza della sua personalità, della sua “attitudine al comando”.

Dall’altra è del tutto inverosimile che Marchionne accetti di rilevare un testimone politico di qualunque sorta, e di rilevarlo poi da Berlusconi, uno col quale non ha mai legato, che non stima, che anzi in passato ha platealmente contestato, ritrovandosi anche per questo a essere “l’icona manageriale” della sinistra, a essere incredibilmente coccolato e accarezzato perfino da Renzi e nonostante abbia, effettivamente, firmato il “trasloco fiscale” della Fiat sotto le blande bandiere tributarie britanniche.

Ma immaginiamoci per un momento cosa accadrebbe se accettasse e, accettando, vincesse le elezioni, finendo davvero col salire a Palazzo Chigi. Ebbene, sarebbero fuochi d’artificio. Marchionne è autocrate quanto può esserlo un capo. La cerchia ristretta dei manager di sua fiducia, che ovviamente include gente molto ma molto in gamba, non consente però l’ingresso di nessuno che osi contraddire il capo, pensare con la propria testa.

Se il comando aziendale è decisionismo, la politica è mediazione. Figuriamoci: Marchionne non ha mai mediato con nessuno, salvo semmai con John Elkann, capo della famiglia azionista di riferimento di Fca, gli Agnelli. Ma mediazioni da leader, non da dipendente. Da un divorzio “cattivo” tra Marchionne e la Fiat, sarebbe quest’ultima a risentirne, non il manager. Che l’ha salvata nel 2004, convincendo la General Motors a scucire oltre un miliardo di dollari “pur di” non dover onorare il contratto con cui qualche anno prima s’era impegnata a rilevare la Fiat Auto. Che l’ha raddoppiata comprandosì la Chrysler – e quel 25% circa di mercato nordamericano che l’azienda rappresenta – per una presa di tabacco: poco e niente. E ha comunque riportato l’utile in un’azienda che nel 2003 il mercato considerava tecnicamente fallita, riportato sul podio la Ferrari, ricollocato nelle classifiche dei modelli più apprezzati o venduti (due caratteristiche che non sempre coincidono) molte vetture Fiat, ma anche Maserati e Alfa Romeo.

Insomma, Marchionne è uno mostruosamente bravo e furbo. Sembra anti-italiano, ma è un italiano vero. Non a caso i suoi omologhi – top manager delle altre case automobilistiche italiane – non amano l’idea di negoziare alcunché con lui: temono, molto semplicemente, di poter essere fregati. O convinti di fare passi segretamente nocivi per loro e utili solo a Fiat; o quanto meno stremati in trattative lunghissime dove alla fine Marchionne si sfila lasciandoli solo con le loro pretese.

Ma ve l’immaginate un Marchionne al vertice dello Stato? Di uno Stato dove non funziona niente e la “macchina” (sarebbe il caso di dire) della Pubblica amministrazione, frena qualunque iniziativa e confonde qualunque idea? Impensabile. Qualunque squadra di ministri il manager col pullover riuscisse a costituire, in capo a sei mesi di gestione l’avrebbe parzialmente (almeno) esautorata. Marchionne è abituato, dopo tredici anni di successi epocali, a essere semplicemente obbedito. Nudo in parlamento, senza lo scettro del potere assoluto tipico delle multinazionali, durerebbe poche settimane.