Si Salvini chi può. Nel lavoro di restyling che ha deciso di applicare alla sua Lega, il plurifelpato segretario si prepara al passo definitivo dello sfascia-Carroccio: ripulendo la ragione sociale da quella scritta “nord” che a inizio anni Novanta aveva costituito la stessa ragion d’essere del movimento letteralmente inventato da Bossi. Il padre fondatore aveva capito quello che tutti gli altri partiti conoscevano, ma non avevano voluto o saputo affrontare: l’esistenza di una questione settentrionale che una figura di altissimo profilo come Adriano Olivetti aveva lucidamente sollevato fin dagli anni Cinquanta. E che per il senatùr era diventata un forziere tale da fargli guadagnare un consenso a due cifre pur contando solo su una parte geografica d’Italia, e ad aprirgli le porte del governo.
Oggi il suo successore sembra deciso a tentare una strada già sperimentata senza esito dallo stesso Bossi tra il 1993 e il 1995, modificando il nome in Lega Italia Federale: rastrellando in tutte le regioni del centrosud un risultato inferiore all’1 per cento. Salvini è convinto di poter fare molto meglio sganciando il partito dall’ancoraggio settentrionale, fregiandolo del proprio nome (capirai…) e addirittura riverniciandolo, tirandogli via il classico verde-padano che qualche fedelissimo come l’ex presidente del Piemonte Roberto Cota aveva applicato perfino all’intimo, acquistando dei boxer peraltro messi in conto alle pubbliche casse. Una scommessa audace, certo, e per nulla avallata dai test finora realizzati: a Roma, per dire, la lista “Noi per Salvini” non è riuscita ad arrivare al 3 per cento malgrado il tam-tam e l’esposizione diretta del segretario; e quando nel marzo scorso è andato a Napoli non è che sia stato accolto con una standing-ovation. Vero è che le stime più recenti danno oggi la Lega vicina al 15 per cento, a livello nazionale; ma è altrettanto vero che l’unico riscontro che conti è quello del voto delle urne, che spesso e volentieri si discosta di molto dai carotaggi telefonici.
A Salvini va dato atto di giocarsi molto, forse tutto: se dovesse perdere la scommessa, il dissenso interno per ora tutto sommato silente nei confronti della sua linea sovranista non rimarrebbe più tale; tanto più che si coagula attorno a due figure di primo piano come i governatori di Lombardia e Veneto, Bobo Maroni e Luca Zaia.
Quante probabilità ci sono che ciò accada? Anche se il fu-Carroccio dovesse vedersi confermare quel 15 per cento che gli assegnano i sondaggi, il problema continuerebbe a porsi: perché o Salvini accetta di rivedere alcuni punti-chiave dell’attuale piattaforma, dov’è in manifesto contrasto con Berlusconi; o tiene duro ma finisce per diventare il rifermo del Pdi, Partito degli incazzati. Funzionale per farsi sentire, nullo per contare nelle scelte.
C’è un ulteriore rischio: se alle politiche il centrodestra dovesse riuscire a presentarsi unito, quale che sia il suo leader, il perdurare delle divergenze su questioni strategiche come l’Europa, l’immigrazione e le alleanze, esporrebbe fatalmente un governo espressione di quest’area all’esiziale debolezza che ha fin qui contraddistinto i precedenti esecutivi di centrodestra, implosi tre volte su tre al loro interno.
Insomma, Salvini ha verosimilmente deciso di giocarsi tutto alle prossime politiche, di fatto chiudendo la vecchia Lega e sostituendola con un partito che, a prescindere dal nome e dal simbolo, sarà qualcosa di radicalmente diverso. Il Carroccio federalista di Bossi era riferimento specifico e radicato di un voto territoriale, con una concorrenza debole. Il “mister X” sovranista di Salvini dovrà comunque fronteggiare un agguerrito confronto con altre forze, a partire dai grillini. E per spuntarla, non basterà fare la voce più grossa o cambiare una felpa al giorno. Come nella notte di San Lorenzo, le stelle si fanno vedere. Ma mentre stanno cadendo.