“Il business case è chiaro. La mancanza di cooperazione nella difesa costa all’Europa dai 25 ai 100 miliardi di euro l’anno, per ogni area in relazione alla quale si faccia riferimento”. Nell’ultimo discorso sullo stato dell’Unione (il prossimo è ormai imminente in settembre), il Presidente della Commissione faceva notare, semmai ve ne fosse bisogno, che in epoca di minacce “ibride”, quelle che possono essere realizzate in modo coordinato da soggetti statali e non statali pur senza oltrepassare la soglia di guerra formalmente dichiarata (terrorismo, attacchi cyber, campagne di disinformazione e propaganda illegale on line) il “soft-power” del gigante economico europeo vale zero. Per la verità, il soft-power di un’Europa priva di una politica estera e di un esercito da porre al servizio di quegli interessi non aveva dato prove di entusiasmante efficacia da sempre. Se hai solo il “soft-power” non puoi che fare lo spettatore. Stare a guardare mentre ti destabilizzano i confini di casa con guerre come quelle in Iraq, Siria, Libia in cui i giocatori sono gli altri, quelli che incassano la posta dei loro interessi e non ti fanno neanche sedere al tavolo da gioco per le mani a venire lasciandoti al massimo a pulire la stanza. Ad arginare affannosamente le conseguenze, come le migrazioni bibliche che il continente subisce.
Neanche quando nel 2013 ci si avventurò in un enfatizzato (a parole) processo costituente – che poi com’ è noto non vide mai la luce – a qualcuno venne in mente di costruire una politica estera e un’effettiva difesa europea. Una delle aree per le quali l’opinione pubblica continentale era ed è più favorevole alle cessioni di sovranità. Secondo un sondaggio di Eurobarometro, dal 2002 al 2016 la percentuale di cittadini europei che chiede una sicurezza e una difesa comune non è mai scesa sotto il 70%, con una punta, nell’ultimo anno, vicina al 77%. Mentre alla domanda “secondo te l’Europa dovrebbe contare di più nel mondo”, quasi il 70% ha risposto in maniera affermativa. Tuttavia nel trattato di Lisbona, al suo art. 42 comma 2, si è enfaticamente deciso di non decidere in materia. Liì si legge infatti che sì, la difesa comune è questione che concerne l’Unione, ma a ciò si arriverà “quando il Consiglio europeo, deliberando all’unanimità, avrà così deciso”.
Ciò non deve stupire e chi lo facesse non avrebbe colto l’essenza della dinamica integrativa europea che è fondata sulla libera volontà degli Stati che a essa aderiscono (“i Signori dei Trattati” li definisce la Corte Costituzionale tedesca). Tutti i processi che involgono interessi vitali ed elementi “core” della sovranità sono infatti decisi all’unanimità. Nessun nuovo Stato può aderire a essa, nessuna nuova competenza e nessuna modifica dei trattati è concepibile, all’interno degli organi dell’Unione e senza che il più piccolo Stato europeo lo voglia. Stato che peraltro in qualsiasi momento può salutare tutti, come ha fatto la Gran Bretagna, esercitando il suo diritto di recesso. Anche nell’ambito delle sue competenze la regola nell’Ue della maggioranza qualificata (secondo l’attuale formula del 55% degli Stati membri che rappresentino almeno il 65% della popolazione) ha fatto non poca fatica a farsi strada nell’evoluzione istituzionale e ancora oggi gran parte delle decisioni sono prese all’unanimità: ad esempio, in materia di bilancio pluriennale (Multiannual Financial Framework), risorse da destinare al finanziamento dell’Ue e loro ammontare, per non parlare della politica estera dove il Parlamento non tocca proprio palla e decide tutto il Consiglio europeo all’unanimità, quando la trova. Edanche laddove sono previste decisioni a maggioranza qualificata la regola è di non forzare la mano trovando un compromesso (di solito al ribasso) che faccia pace con le prerogative statali.
Questa dinamica integrativa “spontaneistica”, diversa dalle altre di maggior “successo storico”, come quelle degli Stati Uniti o della Germania basate su un certo grado di forza e coercizione dall’alto verso il basso (il tentativo di alcune colonie di secedere dagli Stati Uniti portò a una guerra, non a trattative come con la Gran Bretagna secondo l’art. 50 del TUE) produce delle conseguenze evidenti. Le cessioni di sovranità, che altro non sono che cessione di fette di potere per i governi nazionali, avvengono quasi su base coatta, quale reazione e risposta a uno stato di cose che mette in crisi l’Unione. Non nascono mai da una visione lunga e strategica sul futuro, sono immancabilmente giochi di rimessa rispetto a problemi che non possono essere gestiti mantenendo l’originario più limitato sacrificio di sovranità. Vale per il fenomeno migranti, quello terroristico, quello della sicurezza, prima appaltata a terzi, e per la stessa dinamica della governance dell’Eurozona che, in risposta alla crisi, ha già prodotto ulteriori importanti trasferimenti di prerogative (il Patto di Stabilità e Crescita, il Fiscal Compact) e spinge, nel medio periodo, verso una reale e più profonda unione bancaria, maggiore convergenza fiscale e un bilancio simile a Svizzera (10% del Pil) o Stati Uniti (20% del Pil), con un salto non più quantitativo ma qualitativo verso assetti federali.
Ma sempre se gli Stati (dotati al pare degli esseri viventi di un istinto di conservazione) lo vorranno. Quando si accusa l’Unione di ogni sorta di inefficienze e inadeguatezza, sfruttando la generale scarsa conoscenza delle istituzioni e regole europee, andrebbe dunque considerato che l’Unione è quello che gli stati permettono che sia rispondendo, come detto, alle sollecitazioni del momento. Non vi è un’intelligence o una polizia europea che tradisce i suoi cittadini, vi è Europol che è poco più di un passacarte perché questo vogliono gli Stati membri. Non vi è un esercito europeo che non difende il suo popolo dalle minacce interne ed esterne, vi sono un fascio di cooperazioni tra Stati su singoli strumenti di arma e un monumentale modello di inefficienza per il quale si sta correndo ai ripari spinti dalla necessità. Non c’è un’unica politica di visti e asilo sul modello dell’Homeland Secutity Department statunitense che coniuga controllo delle frontiere, immigrazione, sicurezza, anti-terrorismo e cyber-security sottraendola ai singoli stati. Né una guarda costiera europea infingarda che fa passare tutti o l’imposizione ai singoli Stati di accogliere chicchessia. Vi è Frontex che “aiuta i paesi associati a gestire le frontiere esterne”, ma poi ognuno per sé e Dio per tutti, perché così hanno voluto sino adesso gli Stati (l’Italia tra gli altri) a salvaguardia delle loro prerogative, salvo lamentare “l’assenza dell’Europa” a lavacro della loro inefficacia.
Questo permanente “doppio registro” all’interno dell’Unione, connaturato alla sua essenza di organizzazione internazionale, in cui gli Stati si muovono prima dalla prospettiva dei loro interessi nazionali e poi cercando di capire quale di questi interessi può essere meglio soddisfatto nella dinamica istituzionale europea, è la chiave di lettura di quello che sta accadendo nel settore della difesa. Riserva sino adesso incontaminata delle prerogative nazionali che, spinta da necessità contingenti (l’impossibilità di continuare ad andare a cavalluccio sugli Stati Uniti e le allarmanti minacce terroristiche prime fra tutte), sta vivendo una fase di significativa proiezione centripeta sin da quando la Commissione, supportata dagli Stati membri, ha fatto dell'”Europa che difende” la priorità assoluta del suo recente mandato declinandola prima nel suo White Paper sul futuro dell’Ue e poi nel suo recente Reflection Paper dedicato alla difesa.
Sempre questo doppio registro spiega bene anche cosa ci facevano Angela Merkel ed Emmanuel Macron il 13 luglio scorso a Parigi dove hanno ri-dato carburante al cosiddetto motore franco-tedesco la cui chiavetta verrà girata dopo le elezioni tedesche del 24 settembre partendo proprio da un ambiziosissimo piano strategico sulla difesa comune. I due paesi hanno concordato, oltre ad altri numerosi impegni comuni, anche un ampio elenco di programmi per sviluppare insieme nuovi equipaggiamenti militari. Lo faranno a braccetto e facendo valere la combinata potenza di fuoco, soprattutto spingendo le loro industrie e mettendo una buona ipoteca sulle scarse risorse (seicento milioni di euro sino al 2020) del Fondo che la Commissione ha varato a supporto della ricerca e sviluppo congiunto nel settore militare. Allo stesso tempo, proietteranno quell’interesse nazionale in chiave europea non essendo all’evidenza sufficiente il tandem originario ed è molto probabile che lo facciano sfruttando lo strumento della cooperazione strutturata permanente (di cui all’articolo 42 comma 6 del TUE), che lascia andare avanti gli Stati “militarily capable and politically willing”. Anche solo per sedersi al tavolo lo scrutinio dei due requisiti per l’Italia non sarà indulgente.