Ma insomma, la ripresa del Pil italiano di chi è merito? Diciamolo meglio, e francamente: è merito di Matteo Renzi, che la rivendica come una sua prodezza, oppure no?
La domanda — che i benpensanti classificheranno subito come pettegola e italiota — è in realtà più che legittima, è cruciale: perché l’imminente campagna elettorale per le politiche del 2018 sarà tutta giocata da Renzi sui pretesi meriti dei suoi ormai 1000 giorni di governo, nel tentativo affannoso di risalire la china del consenso che le sue sbruffonate e la sua monumentale antipatia gli hanno fatto discendere.
Diciamo allora, innanzitutto, che benedetta sia questa ripresa. Per modesta che sia, per incompleta, per frammentaria che si mostri, è una boccata d’ossigeno. Ovvio? Sarà, ma premettiamolo per poi poter, più liberamente, evidenziarne i gravi limiti e tutte le caratteristiche per le quali sarà meglio non entusiasmarsi troppo.
L’Eurozona ha fatto registrare 17 trimestri consecutivi di crescita: dal 2013 a oggi l’economia dei Paesi della zona euro corre, non quella italiana. Rispetto alla fase pre-recessione, nel 2008 — ha osservato per esempio il capo economista di Nomisma Andrea Goldstein — il livello del Pil italiano resta abbondantemente inferiore (di oltre il 6%) alla media. Corre più di noi, ovviamente, la Germania, ma meno ovviamente anche la Francia, per non parlare della Spagna. Quindi il gap che ci separa da queste altre economie europee continua ad allagarsi: abbiamo sofferto la crisi più di loro, ne stiamo uscendo più lentamente di loro.
Mentre già i partiti strologano su come “spendere” gli effetti macroeconomici di questa crescita in termini di maggiori risorse di finanza pubblica, è da notare che né il +0,4% trimestrale né lo stesso +1,5% rispetto al trimestre simmetrico dell’anno scorso basteranno a rilanciare gli investimenti o tantomeno l’occupazione, con buona pace degli effetti sostanzialmente nulli del Jobs-Act e dei voucher, denunciati come tali perfino da un piddino leale a Renzi come Cesare Damiano, che però di queste cose capisce.
E allora la politica economica dei “mille giorni” è servita a zero? No: sarebbe ingiusto saltare a questa conclusione. Qualcosa di buono il governo Renzi l’ha fatto, ma soprattutto ad opera di due personaggi indipendenti dal premier, che non a caso lui detesta: Carlo Calenda e Dario Franceschini. Il primo è senza dubbio il ministro economico che più convince i mercati, gli interlocutori istituzionali stranieri e il mondo del business. Perché ci capisce: conosce la sua materia, che è stata soprattutto il marketing internazionale, ma anche la gestione aziendale nel suo insieme. Per questo non piace a Renzi: perché su questi temi, con lui, l’ex premier non tocca palla. Però Calenda, dapprima come viceministro al Commercio con l’estero e poi come ministro dello Sviluppo economico — riprendendo, in questo ruolo, anche alcune linee strategiche scelte dal suo predecessore e collega di governo Corrado Passera, all’epoca dell’esecutivo Monti — ha fatto cose concrete. Ha completamente rinnovato l’azione promozionale italiana per l’export, ottenendo risultati concreti che gli vengono riconosciuti in mezzo mondo; e poi col piano Industria 4.0 ha riattivato investimenti privati in infrastrutturazione non solo digitale come non se ne vedevano da oltre dieci anni.
E Franceschini? Come meno verve e un’antipatia forse inferiore solo a quella che ispira Renzi, ha però capito che il turismo andava aiutato valorizzando le attrattive meno ovvie ma molto importanti, nominando una raffica di nuovi sovrintendenti che in alcune aree hanno lavorato benissimo, attirandosi peraltro l’ira dei potentati locali: basti pensare agli scavi di Pomperi ed Ercolano, come a quelli di Paestum, o alla Reggia di Caserta, tutte gemme attrattive di prima grandezza per il turismo internazionale, che sembrano nate a nuova vita. C’è poi il fenomeno Milano e Lombardia, con la capitale dell’Expo che ha superato la disastrosa Roma come presenze turistiche e mille altre mete — da Mantova ai laghi — gettonatissime dal turismo di tutto il mondo. C’è da dire che ad aiutare Franceschini ha provveduto anche l’inaffidabilità che purtroppo emanano alcune mete tradizionalmente in forte concorrenza con l’Italia: tutto il Nord-Africa, il vicino Oriente e la Turchia: ma un po’ di “stellone” non guasta.
Dunque è facile dire chi ha giovato alla ripresa e chi no. Sarà meno facile ricordarselo quando i mantra propagandistici della prossima campagna elettorale entreranno nel pieno, ma un po’ di memoria storica aiuterà.
P.S.: c’è un renziano di governo che si è mosso bene ed a sua volta ha aiutato un po’ la miniripresa in atto nel suo settore: Maurizio Martina, ministro dell’Agricoltura. Peccato che i consumi interni, che avrebbero dovuto ripartire sospinti dalla mancetta degli 80 euro elargita da Renzi, si siano mossi poco, e non si hanno dall’Istat i dettagli delle sue componenti, diversamente da quel che accade in altri Paesi europei.