Sembra una situazione paradossale quella che si sta vivendo in Italia e in Europa, in questo momento. Gli ultimi dati e le ultime stime sulla ripresa mostrano un buon trend, una buona tendenza. E’ possibile, anzi probabile, che l’aumento del Pil in Italia nel 2017 superi le previsioni fatte nel Def e sulle quali si pensava di calibrare la manovra di autunno, cioè la vecchia finanziaria. C’è addirittura chi azzarda un 1,5 per cento e rispetto agli anni che abbiamo passato è indubbiamente un’inversione di tendenza marcata.
Intendiamoci, come sostiene il ministro per lo Sviluppo, Carlo Calenda, non siamo ancora fuori dalla crisi e la risalita ai livelli precedenti il 2007 sono ancora lontani, di ben oltre 6 punti. Facciamo sempre parte del gruppo di coda dell’Eurozona, con una situazione di disoccupazione (soprattutto quella giovanile), di diseguaglianza sociale e di povertà nuove e vecchie che destano preoccupazioni e incertezze. Se si pensa che i posti di lavoro cominciano ad aumentare su una costante di crescita del Pil del 2 per cento, comprendiamo che la strada è ancora lunga e che nell’opinione pubblica la percezione della crisi sia ancora sentita.
Tuttavia l’inversione di tendenza, per questioni probabilmente cicliche, di rimbalzo, sicuramente per gli interventi di immissione di capitali fatte in tutte le parti del mondo, compreso il Quantitative easing operato dalla Bce in questi anni sul mercato secondario, ha cominciato a dare, faticosamente, i suoi frutti, con alcune contraddizioni — ad esempio: si muove di più il Pil che l’inflazione, lontana ancora dai livelli sperati.
Ma se il quadro economico è complessivamente migliorato, perché allora si vive un paradosso, un’incertezza politica di fondo sulle scelte da fare?
Il problema reale è che la grande crisi del 2007 e la fatica patita in quasi tutti i Paesi per diversi anni ha lasciato il segno sulla sostenibilità del sistema economico attuale. C’è chi sostiene, e non a torto, che così come non sono stati ben letti la nascita e lo sviluppo della crisi del 2007, oggi prevalgano una prudenza di giudizio e una divisione ancora rigida sulle ricette da apportare al sistema economico mondiale, alle regole della globalizzazione e al ruolo che ha svolto e tuttora svolge la finanza.
Questo è uno dei momenti storici, probabilmente epocali, in cui la politica dovrebbe fare dei bilanci ponderati e dovrebbe misurarsi con i protagonisti della vita sociale ed economica. Al contrario di quanto dovrebbe avvenire, i protagonisti della vita politica, particolarmente in Italia, ma anche in altri paesi d’Europa, al posto di riguadagnarsi un ruolo di guida o di indirizzo sembrano solo alla ricerca di riconoscimenti personali e sensibili soprattutto a crearsi una rendita elettorale. E’ una strada profondamente sbagliata.
In Francia, il residente Emmanuel Macron propone una linea di protezionismo e di espansionismo, spesso aggressivo, che non ha nulla a che fare con l’europeismo sbandierato prima e dopo la sua entrata all’Eliseo. La Germania prosegue nella sua politica di perseguire un surplus commerciale che, con tutta probabilità, si avvicinerà a fine anno al 10 per cento del suo Pil, una quota a che supera di molto i 250 miliardi di euro, avvicinandosi sempre più ai 300, in violazione degli accordi della Unità europea.
Non solo, è sempre in Germania che, dall’estrema destra, ma non solo, arrivano ricorsi alla Corte costituzionale federale contro la politica della Bce di Mario Draghi sul Quantitative easing, che, secondo i ricorrenti, “rappresenterebbe un finanziamento diretto dei bilanci statali”. E la Corte tedesca si appella alla Corte di Giustizia europea per decidere, tanto che deve essere il duro Wolfgang Schäuble ad arrivare a difendere (per salvare il salvabile di questa Europa) le scelte fatte dalla Bce che dureranno per non ancora molto tempo, forse un anno e poi si ridurranno progressivamente.
In Italia siamo addirittura a una giostra, alla fiera delle vanità, con Matteo Renzi che rivendica il suo operato e le sue scelte contro la crisi (anche se dimentica sempre nel suo bilancio di spendere una parola sul Qe di Draghi); il ministro all’Economia, Pier Carlo Padoan si compiace della sua prudenza e delle sue mediazioni in Europa; predica quasi la gestione di un “tesoretto” che sta maturando da diversi rivoli per assestare un programma di risanamento. Infine c’è Carlo Calenda, che spinge per un attimo l’acceleratore e invoca un piano industriale per rilanciare il Paese.
Come si riuscirà a trovare un denominatore comune tra queste tre posizioni interne al governo e tra le forze politiche tutte frastagliate e abbastanza sfarinate di questa Italia, è un mistero che dovrà essere affrontato nei prossimi mesi.
Ma quello che più preoccupa è che l’Unione europea appare sempre una chimera, dove convivono interessi diversi e non una linea di politica economica comune, con i soliti rituali di “rigoristi” e “flessibilisti” che alla fine non vanno mai al nocciolo della questione: come dev’essere riformato questo capitalismo, questo libero mercato dopo una crisi che è durata e che dura da dieci anni?
Il paradosso si trasforma in preoccupazione se si pensa che, una volta terminati gli interventi di sostegno, di immissione di liquidità, di bassi tassi di interesse l’Europa possa dimenticare ancora una volta la sua “anima” comune (se mai l’ha avuta) e si muova in fila indiana, in una versione di vecchio statalismo e nazionalismo tradotto al singolare per ogni Paese membro e che non ha nulla a che fare con il complessivo interesse europeo.
In definitiva ci si potrebbe trovare di fronte all’ultimo appuntamento utile per il rilancio della politica europea. L’incubo è che, dopo lo smascheramento dell’azione troppo invadente e dannosa delle finanza, sia la politica a diventare la causa di un pauroso testacoda e di una crisi definitiva. Le possibilità di uscire veramente dal clima del 2007 ci sono o si possono trovare. Basta individuarle con un minimo di razionalità e senza un’anacronistica autoreferenzialità.