E’ un’escalation impressionante quella avvenuta nelle ultime settimane, diciamo pure gli ultimi due mesi, verso l’impopolarità, verso la nuova disillusione degli italiani nei confronti della politica e delle istituzioni. 

Quello che in termini sociologici è chiamato disincanto sta travolgendo il partito che fa da baricentro al governo, cioè il Partito democratico, ma anche l’opposizione del Movimento 5 Stelle appare disastrata: quasi ogni giorno deve trovare una scusa per la cattiva gestione dell’amministrazione romana. Sulla destra, o sul centrodestra, resta una disaggregazione, al momento funzionale a mettere in minoranza quelli che sino a qualche tempo fa erano i due principali contendenti. Ma il panorama politico, da destra a sinistra (anche quella alternativa tutta frammentata), merita solo l’aggettivo di “pittoresco”, che con la politica c’entra, complessivamente, come i cavoli a merenda.



I dati economici che spara l’Istat sono buoni e cattivi, a seconda dei gusti, dei punti di vista e della propaganda elettorale. Ma di fatto quei dati ci relegano sempre in fondo alla classifica e ancora oggi, agosto 2017, a dieci anni dalla crisi, meno di un giovane su tre ha un lavoro in Italia. Fatto che in termini sociali ed economici è l’immagine di una tragedia, non solo generazionale.



Mentre si trascina, con relative e abbondanti vacanze estive, questa legislatura “patetica” (l’aggettivo è del guru Paolo Mieli), c’è il presidente francese Emmanuel Macron (quello che preferiva l’Inno alla gioia, più europeista della Marsigliese), ci prende letteralmente a schiaffoni sulla politica industriale di difesa europea (è questo il senso della partita dei cantieri di Saint Nazaire), che l’inquilino dell’Eliseo aveva concordato, più di un mese fa, con Angela Merkel. 

Siamo esposti a un’avventura libica, con il relativo problema dei migranti, difficilissima, che solo il coraggio del ministro dell’Interno (forse uno dei pochi rimasti a masticare politica) cerca di affrontare. Ma ci sono pure alcune Ong che spiegano quello che dovrebbe fare lo Stato! 



In conseguenza di questa sfilata di insuccessi, persino i grandi commentatori di giornali e telegiornali si avventurano in reprimende sulla “solitudine” italiana, sull’irrilevanza del Paese, sulla mediocrità della classe dirigente. Sono sempre gli stessi commentatori che, per almeno 20 anni, ci avevano spiegato — liquidata la corrotta “prima repubblica”, stroncata dal dipietrismo e dal davighismo — che poteva nascere una nuova classe dirigente e c’era un grande futuro per l’Italia.

E’ vero che in tutto il mondo occidentale, la politica non vive un momento di euforia, ma la situazione italiana ricorda una frase amara del filosofo ed economista inglese John Stuart Mill: “La tendenza generale del mondo è quella di fare della mediocrità la potenza dominante”.

Il problema è che soprattutto in Italia, questa corsa verso la mediocrità sembra perfettamente funzionale al sistema. Dai commentatori agli attuali improvvisatori della politica, ai “poteri forti” che sono scappati dall’Italia, le voci che si opponevano, fin dagli anni Novanta, alla politica indiscriminata di svendita dell’Italia e di privatizzazione selvaggia “all’italiana”, a beneficio dei soliti noti e dei soliti amici, si contano su una mano, sia a destra che sinistra, passando per il centro.

In realtà, come in una storia triste e lunga, l’Italia sta pagando amaramente tutti gli errori cominciati con il 1992, quando si smantellò per circa cento miliardi di euro attuali (la cifra complessiva fu di circa 220mila miliardi di vecchie lire) tutta l’industria pubblica senza nemmeno un buon criterio di vendita. 

Mentre si assisteva alla liquidazione brutale di una classe dirigente, si rinunciava a una politica industriale che poteva restare mista o poteva essere calibrata lentamente verso una privatizzazione con liberalizzazione più ponderata e senza fretta. In più ci fu l’allineamento italiano alle decisioni prese negli anni Novanta sull’eliminazione dello Steagall Glass Act, cioè la divisione tra banche commerciali e d’investimento, e la “festa” dell’eliminazione di regole alla diffusione illimitata dei derivati e delle operazioni fuori Borsa. Al posto di fare questo titanico scontro sui vitalizi, perché nessun partito cerca di correggere queste decisioni? Almeno sarebbe un punto di partenza, per fare in modo che il Pil finanziario non superi sempre quello economico industriale.

Perché, al posto di scoprire l’irrilevanza ormai conclamata dell’Italia, non si parla di queste cose dettagliatamente? Perché nessun partito in Italia, al posto di strologare sull’etica, non pensa al contenimento del potere finanziario nel mondo (che si riversa poi anche sull’Italia) ed elabora un piano industriale di massima?

Altro che “partita Fincantieri”. Ormai siamo arrivati alla marginalità internazionale, con l’eccezione di qualche zona italiana che mantiene una tradizione imprenditoriale di prim’ordine e si trasforma in una sorta di città-stato che sembra quasi estranea al Paese.