La discussione in atto sul tema dell’attribuzione della cittadinanza a persone nate in Italia, al di là degli slogan, è interessante perché pone a tema il senso della nazione e, quindi, dell’appartenenza. Lo pone anche se in modo indiretto perché, invece di guardare al fondo del problema, si limita a chiedere un sì o un no molto spesso senza adeguate motivazioni. Il progetto di legge, la cui approvazione è stata rimandata a settembre, ha una linea di fondo condivisibile. Esso tende a dare lo status di cittadino a chi, nato in Italia, proviene da un nucleo famigliare che ha già fatto passi avanti nell’integrazione (genitori che sono stabilmente insediati sul territorio nazionale in quanto residenti di lungo periodo) o che ha fatto egli stesso un percorso di integrazione tramite la frequenza a scuole italiane. Vi sono dunque cautele che pongono il progetto nel gruppo di quei paesi a favore di uno ius soli temperato e non automatico, come accade per molti stati europei, e – nello stesso tempo – apre percorsi volti a dare una prospettiva di stabilità soprattutto ai giovani.
Certo, le situazioni sono poi molto differenziate e la legge, per sua natura generale e astratta, non sempre riesce a tener conto di tutti i fattori. E, forse giustamente, vi è chi teme un eccesso di generosità nella concessione della cittadinanza, uno scarso coordinamento con le normative sull’immigrazione (ad esempio rispetto al problema dei ricongiungimenti famigliari), un indebolimento dei provvedimenti che si potrebbero prendere nel caso di “cittadini” collusi con il terrorismo. Su questi temi occorre approfondire la riflessione affinché le novità legislative si inseriscano in modo coerente con tutte le complesse e articolate normative di settore.
In questo senso occorre recuperare razionalità e non rispondere istintivamente alle crescenti paure che il fenomeno migratorio e il terrorismo stanno fomentando. È evidente infatti che i timori verso le possibili derive negative delle novità che si prospettano tendono a creare un sentimento che porta a ostracizzare qualunque possibile progresso. Su questo il dialogo con la politica deve sostenere la ricerca di risposte adeguate senza cadere nelle contrapposizioni e negli slogan. Ma, ancora di più, è necessario tenere aperto il tema del senso dell’integrazione, che ha molti volti e non solo quello burocratico/normativo della mera applicazione della legge; l’integrazione non si risolve con un provvedimento, quand’anche lungimirante. Essa coinvolge il senso della convivenza civile, degli spazi di incontro tra culture e religioni diverse, dei principi e delle culture che aprono all’accoglienza senza derive buoniste o falsamente egualitarie. E, in ultima analisi, costringe a chiedersi in che senso, oggi, noi siamo davvero una nazione, non solo nel senso in un’etica nazionale fondata su lingua, storia, religione, cultura (una visione romantica, ma non priva di fascino), ma neppure solo nel senso di una sottoposizione eguale a norme giuridiche unificanti per definizione, staccata dal sostrato di valori e di principi che la rendono tale.
Concludendo ad interim – perché evidentemente la discussione è ancora ampiamente aperta – si può dire che il progetto di legge ha una visione non unilaterale, solo attenta alla definizione giuridica della cittadinanza da attribuirsi quasi in automatico. Esso ha in sé anche elementi sostanziali come quelli messi in luce (qualità del nucleo famigliare, istruzione, ecc.). Non solo demos, quindi, ma anche ethos, quest’ultimo da incrementare non solo tra i non cittadini o aspiranti tali, ma anche per chi cittadino già è e non ha mai cercato di approfondire il senso di questa suo status. In questo senso, la discussione in atto può essere interessante e utile. E’ una delle questioni che il Meeting di Rimini si pone quest’anno.