“Mi è piaciuto molto questo spirito d’iniziativa, questa voglia di fare che, a quanto ho potuto vedere poco fa, promana dalla vostra mostra”, dice Paolo Gentiloni, e l’Auditorium del Meeting carica anche su questo apprezzamento a un lavoro che sta piacendo molto, in queste ore, a Rimini, la molla del grande applauso con cui più volte interromperà il premier. “Questa mostra”, aggiunge lui, “trasmette la consapevolezza del fatto che senza il rischio e l’impegno individuale trovare il proprio lavoro sarà sempre più difficile, e questo nonostante noi si provenga da una storia nobile di difesa dei posti di lavoro esistenti”…



Quello di Gentiloni non è un stato un riferimento casuale al tema della mostra “Ognuno al suo lavoro – Domande a un mondo che cambia”, che aveva inaugurato poco prima. Al contrario, nel suo vero e proprio discorso “da statista” con cui ha conquistato la platea di Rimini, il premier ha colto lo spunto della mostra (tra l’altro “raccontata” dal mensile Economy, che ne è stato “media-partner” con un numero speciale) per porre un accento molto forte sul problema dei problemi: “L’impegno che prendo qui, con voi”, ha detto dal palco, “è che concentreremo a favore del lavoro giovanile alcune limitate misure che la prossima Legge di bilancio, grazie al lavoro fatto negli ultimi anni, ci consentirà di prendere. Lo faremo sia attraverso incentivi permanenti e stabili a favore dell’assunzione di giovani, consolidando i risultati del Jobs-Act, sia attraverso le politiche attive del lavoro”, che saranno dunque potenziate.



Non era la “prima assoluta” di Gentiloni al Meeting, ma l’impressione di molti è stata che il premier sia rimasto colpito dall’età media insolitamente bassa per una manifestazione come questa, l’unica a essere viva e dinamica in un’epoca di feste politiche e culturali boccheggianti, in una fase in cui l’evento polemico dell’estate — l’abbraccio tra Giuliano Pisapia e Maria Elena Boschi — si è celebrato in una Festa dell’Unità che aveva in platea sì e no 200 persone. Qui, 5000 gremivano l’Auditorium e molti di più giravano nei padiglioni, ascoltavano i dibattiti, curiosavano tra gli stand.



Giovani che lavorano, giovani che studiano, famiglie, migliaia di volontari, un pezzo d’Italia vero, un pezzo d’Italia fattivo, e fervido.

Positivo ma — attenti! — non boccalone; per esempio, è un pubblico che avrebbe molto da ridire sugli effetti reali del Jobs Act, impietosamente ridimensionati dai dati riassunti, con alcuni grandi chiarissimi pannelli all’interno della mostra, dal professor Mario Mezzanzanica: ma Gentiloni, condotto in giro dentro la mostra da Marco Saporiti — il coordinatore dei 26 giovani under-30 che hanno ideato e prodotto la mostra — non ha fatto una piega davanti a quei pannelli. Non ha accennato a confutarne le critiche; e non è sembrato nemmeno notare lo sberletto all’indirizzo del suo ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, rappresentato da un’installazione posta proprio accanto all’ingresso della mostra: un minicampo di calcetto, piazzato proprio al fianco dell’ingresso della mostra, sul cui fondale campeggia la storica gaffe “Nel lavoro si creano più opportunità giocando a calcetto che a spedire curricula”…

Sia chiaro: nulla può scuotere Paolo Gentiloni dal suo rispetto istituzionale verso il segretario del partito, il Pd, che guida la coalizione a sostegno del suo governo, nonché suo predecessore a Palazzo Chigi: ma se c’è qualcuno che appare antropologicamente agli antipodi di Renzi e del renzismo, questi è Gentiloni. Di famiglia nobile e di scuola politica negoziale, della miglior tradizione Dc. Tanto pacato lui — con una chiara predilezione per le formule prudenti, tipo quella delle “alcune limitate misure” che la congiuntura e l’Europa permetteranno al governo in materia di finanza pubblica – quanto roboante e magniloquente il toscano; tanto modesto nelle ambizioni dichiarate lui (“concludere in modo ordinato la legislatura, questo è il mio compito”) quanto velleitario l’altro.

Ma in questa pacatezza di Gentiloni, in questo suo low-profile, in questo modo di parlare sobrio, chiaro e mai tracotante, c’è del metodo e molta sostanza, c’è — soprattutto — una totale indipendenza culturale e metodologica. Come quando afferma con grande chiarezza, parlando di ripresa e di futuro, che “potremmo guardare al futuro meglio di tanti altri, se solo avessimo il coraggio di esserne più consapevoli”; e spiega che questo futuro migliore si costruisce “puntando sui corpi intermedi, sulle Reti, sulle Comunità”: i “corpi intermedi”, proprio le “bestie nere” di Renzi, che ha fatto di tutto per distruggerli o ignorarli, E ancora: come quando Gentiloni cita Baumann, “La felicità comincia a casa, in famiglia, nel contatto, della discussione, nei litigi”. Infine, la sua conclusione: “Non sovranismo, ma patriottismo. Il soft-power italiano. Le elite sono cosmopolite, le persone sono locali, su questo possiamo investire il capitale umano italiano, e l’impegno di ciascuno può far vincere l’Italia”.

Che musica, rispetto agli strilli di prima.