Fausto Bertinotti, ormai inviso dalla sinistra di cui è stato per anni uno dei maggiori leader, ha le idee chiarissime sul momento storico che stiamo attraversando. Un momento in cui le grandi forze popolari di sinistra hanno perso ogni legame con la tradizione in nome di un nuovo astratto mentre l’avvento della globalizzazione dà vita a un capitalismo che è oppressione. “Solo ripartendo dal sociale, dal territorio, dalla cooperazione, dalla solidarietà nelle piazze, dall’accettazione dei migranti si potrà tornare a credere nelle istituzioni che oggi hanno perso qualunque significato”.
Bertinotti, lei è stato un innovatore per scelta di campo: la sinistra per definizione guarda al futuro non al passato. Cos’è la tradizione per lei?
Usando una metafora comune nella vostra appartenenza, la sinistra è stata un’evidenza per un secolo, una presenza che si giustificava da sola, nel bene e nel male, per la sua riconoscibilità.
Oggi invece che cos’è?
La sinistra oggi ha perso l’evidenza, non è più evidente, e questo vale in tutta l’Europa. Per supplire a questo vuoto possiamo parlare della sinistra del 900, in attesa che rinasca una sinistra del futuro.
Che cosa era quella sinistra?
Era un mondo complesso: anarchica, socialista, comunista, laburista, ma anche la sinistra sociale cattolica. Penso alla grande tradizione del movimento operaio, che è l’espressione che preferisco, e non lo intendo in senso ideologico ma come storia di un popolo. Questa realtà ha replicato una tradizione ereditata, a sua volta, da una lunghissima tradizione che aveva a cuore gli ultimi, le lotte di emancipazione, dagli schiavi alla comune di Parigi, e che va dalla nascita del cristianesimo all’illuminismo. Questa scia luminosa e drammatica è stata la tradizione del movimento operaio. Una storia che segna l’intero 900 con la rivoluzione d’Ottobre e che è stata sconfitta. Con la sua sconfitta finisce anche il 900, un secolo che è tensione fra tradizione e innovazione.
Vorrei approfondire la domanda: che cos’è oggi la sinistra?
Una nebulosa che per convenzione chiamiamo sinistra e che avendo rotto con la tradizione non riesce più a rinnovarsi. Sembra paradossale, invece è elementare: rinnovi solo se muovi da una tradizione riconosciuta. Come diceva San Bernardo, siamo nani sulle spalle di giganti. Ma se hai cancellato i giganti restano solo i nani. La sinistra reale, quella delle istituzioni, con nomi che non dicono più nulla di emozionante, di coinvolgente, di appassionante, oggi si è innamorata del termine “nuovo”.
Cosa intende con questa terminologia?
Non si è accorta, avendo abbandonato la tradizione, che il nuovo era ciò che stava fagocitando i parvenu. C’è un nuovo che è tuo, perché vuol dire ricerca, sperimentazione, camminare insieme. E c’è un falso nuovo che in realtà è la tua morte. Sembra nuovo ma non lo è: lo chiami nuovo perché non hai più una griglia critica. E’ un ritorno non all’antico ma all’indietro; una catastrofe. Non si riesce più a distinguere tra il nuovo come libertà e liberazione e il nuovo come oppressione.
Oppressione?
C’è stata una mutazione genetica. Il primo elemento è la perdita della memoria, della nozione della propria storia. Togliatti, anche se non è politicamente corretto citarlo oggi, aveva intuizioni importanti: veniamo da lontano e andiamo lontano, diceva, e questo illustra quello che abbiamo detto. Senza venire da lontano non siamo niente.
C’è un momento preciso in cui in Italia la sinistra muore?
Tendenzialmente ciò è avvenuto a cavallo di due grandi fenomeni storici. Il primo è il crollo dell’Urss, l’altro è l’avvento di quella rivoluzione capitalistica chiamata globalizzazione. Questi due fattori hanno costruito una tenaglia che ha stritolato la tradizione. Si pensava che il crollo dell’Urss avrebbe liberato le forze del movimento operaio occidentale per una nuova stagione di riforme, di cambiamenti economici e sociali e invece è diventata l’occasione per dimenticarsi della storia, per liberarsene. E’ una cosa terribile, perché fare i conti col passato vuol dire accogliere anche le proprie responsabilità come figlio.
E adesso? Che cosa rimane?
Oggi bisogna giocare tutto sull’accadere di un imprevisto, e in questo senso il crollo dell’Urss era troppo previsto. La sinistra di governo ha preso lucciole per lanterne, ha pensato che fosse un processo di modernizzazione ineluttabile, non suscettibile di critica, anzi.
In questo vuoto si è infilato quello che chiamiamo populismo, è così? Che scenario prevede per il nostro Paese?
Io penso due cose molte aspre, ma ne sono convinto. La prima che non ci sia salvezza nell’attuale assetto istituzionale dell’Europa e dei singoli paesi. L’attuale sistema si è costituito come sistema oligarchico e la crisi della democrazia è la manifestazione più evidente della rivincita delle élite. E’ la formazione di una nuova aristocrazia economica in grado di costruire un nuovo senso comune. Questo non lo fanno più le università o le scuole, si costituisce nei processi pilotati dalle banche, nel rapporto fra lavoro e consumo e a tutto vantaggio di questo secondo. Questo tipo di capitalismo, che non ha nulla a che fare con il vecchio, ha in sé una vocazione totalitaria, la costruzione dell’uomo nuovo.
Un futuro inquietante, anzi spaventoso.
E’ la desertificazione dell’umanità, lo ha detto benissimo Carrón nella sua intervista di qualche mese fa: la crisi del rapporto fra la questione antropologica e il destino dell’uomo si trova in questa struttura economica. Le istituzioni attuali sono senza sovranità popolare, l’esercizio del voto è totalmente superato, non ha più senso, la gente non va a votare perché non ne vede il senso: la competizione è solo per conquistare il governo, non per attuare delel scelte politiche.
Quale speranza in conclusione?
Si può perseguire una presenza nelle istituzioni, ma a condizione di avere gli occhi spalancati sulla crisi della democrazia. Esse avevano un fondamento nella vita popolare, nei processi di partecipazione che sostenevano la democrazia rappresentativa. Le componenti cattoliche e marxiste convergevano nella centralità del parlamento.
Ripartire dal basso, dunque? Da corpi intermedi che operano per il bene del popolo, e in mezzo al popolo?
La realtà si gioca nel sociale, nella società. Il vero processo di costruzione politica oggi è nelle fondamenta, non parte dal tetto, sta nelle relazioni sociali umane di cooperazione, di solidarietà. La ripresa della politica passa solo dalle piazze, come quella di Roma, dove gli immigrati sono stati cacciati, sta nel territorio, nelle parrocchie, nei bar, dando a chi viene cacciato dalle piazze luoghi di vita. Con la costruzione dalle fondamenta di corpi sociali, solo così rinasce un popolo.
(Paolo Vites)