Quando eravamo giovani giornalisti alle prime armi, chiamavamo senza alcuna ironia Enzo Bettiza “il barone”. Era una sorta di riconoscimento a quel grande scrittore, prima ancora che all’inviato e al corrispondente dall’estero, doveroso, sentito intensamente e con affetto, per quello che regalava con la sua prosa quasi scolpita, con quella sua scrittura mai banale, con quelle sue analisi lucide, sorrette non solo da una grande cultura mitteleuropea, ma da una grande intelligenza e da una grande capacità.
“Barone” era un riconoscimento al personaggio, anche esteticamente, ma soprattutto al suo ruolo di grande intellettuale “contro”, fin dalla metà degli anni Sessanta, quella condiscendenza, a volte quella paracomica reverenza intellettuale, se non addirittura connivenza, con il comunismo sovietico, con il socialismo reale. Atteggiamenti che esistevano in Occidente, soprattutto in Italia, dove c’era il Partito comunista più grande del mondo democratico.
Bettiza da giovane era anche lui passato per l’utopia e il mondo comunista e da quella sua militanza ed esperienza era nato un libro che ancora adesso si legge con piacere, La campagna elettorale.
Poi, con tutta l’ampiezza della sua cultura, letteraria, storica e politica, era diventato uno spietato critico del comunismo, del sinistrismo, del gauchismo, convivendo o addirittura anticipando la grande svolta degli intellettuali francesi della fine degli anni Settanta e la testimonianza eroica dei grandi dissidenti russi.
Nel panorama culturale italiano, ma anche europeo, Enzo Bettiza rappresentava, per profondità d’analisi e competenza, il contraltare dell’inquietudine degli “intellettuali contro” che stavano a sinistra. Non era quello uno scontro banale, ma piuttosto un confronto di grande valore intellettuale, che per la storia alla fine ha “vinto” Bettiza.
Per questa ragione, Enzo Bettiza è stato paradossalmente scomodo in vita e, lo si può vedere dai “coccodrilli” giornalistici e dai necrologi, anche dopo la sua morte avvenuta nei giorni scorsi resta e resterà scomodo per lungo tempo.
In Bettiza non c’era solo una grande figura di intellettuale, ma anche un’esperienza di vita incredibile e una nettezza di rapporti umani, una lealtà di scelte, di giudizi, che quasi sgomentavano per la passione con cui il giornalista e scrittore viveva le sue idee e le sue convinzioni.
Solo per fare uno degli ultimi esempi: condivise la fondazione e la direzione de Il Giornale nel 1974, andandosene dal Corriere della Sera, con Indro Montanelli, ma con lo stesso Montanelli non parlò in seguito per tredici anni. Bettiza era diventato un craxiano convinto, Montanelli aveva vissuto altre stagioni politiche e quella scelta riformista, profondamente democratica e improntata al nuovo pensiero “lib-lab”, lo aveva vissuto come un tradimento.
Nei suoi libri e nei suoi ricordi che a volte, con molta discrezione, condivideva, c’era un tracciato umano ricco e intenso. Ne escono i ricordi del bambino Enzo Bettiza, nato a Spalato in Dalmazia, dove viveva con la famiglia di grandi imprenditori del cemento. Le domeniche, in quella Dalmazia italiana, erano segnate dall’acquisto e dalla lettura del Corriere da parte del padre e dal Corriere dei piccoli del giovanissimo Enzo. Un desiderio di rivendicare apertamente la propria italianità in quelle zone di confine.
Poi vive l’esodo, l’esilio dopo l’avvento del comunista Tito e le prime avventure e scelte in Italia. Non semplici, ma sostanzialmente rivelatrici di una personalità spiccata, che lo portano presto a essere uno dei più bravi giornalisti italiani, per la conoscenza delle lingue e del mondo dell’Est.
Si distingue subito a La Stampa di Giulio De Benedetti, ma il decennio della grande maturità intellettuale e professionale è quello tra il 1964 e il 1974, che Bettiza passa al Corriere della Sera, prima con un grande direttore molto amato, Alfio Russo, l’ultimo leader di un Corriere che rappresenta la migliore borghesia milanese e il Nord italiano. In più con l’amicizia e i consigli di Dino Buzzati. Poi passa l’incerta direzione di Giovanni Spadolini e le prime “virate” del quotidiano di via Solferino verso la sinistra sessantottina di Giulia Maria Crespi e infine la svolta di Piero Ottone.
Bettiza vive quel decennio con la schiena diritta, da grande “combattente”, non rinunciando mai alle sue idee. Al sessantottismo delle università e delle strade di Milano, che penetra anche nella redazione del Corriere, risponde con un articolo che sarebbe oggi da ripubblicare, dal titolo dostoievskijano “I demoni”. A Giulia Maria non risparmia giudizi durissimi. A Ottone risponde con battute al vetriolo: “Pensi al Times di Londra, ma confezioni quello che si fa a Dublino”. Poi il giudizio impietoso di qualche anno dopo: “Ottone pensava di diventare l’Ilja Erenburg del compromesso storico italiano”.
Quando nel 1974 fonda e affianca alla direzione Montanelli al Giornale, è Bettiza che porta alla ribalta un’intera classe intellettuale europea, messa ai margini dal breznevismo dilagante di quegli anni. Arriva addirittura Dan Segre, uno dei fondatori di Israele. L’Italia conosce finalmente la prosa dell’altra Francia, non quella del conformismo di sinistra di Jean Paul Sartre e Simone De Beauvoir, ma quella di Raymond Aron, di Jean-François Revel, di François Fejto, i precursori delle opere di François Furet e di Stephane Courtois sui crimini del comunismo.
Ma è sempre Bettiza che finalmente sdogana i “dimenticati scomodi” della comunità storica italiana, come Rosario Romeo, Renzo De Felice, Renato Mieli. Forse qualche grande personaggio del Corriere della Sera, in questi giorni, poteva stilare solo un necrologio ragionato, per postuma reverenza, a quel grande giornalista. Anche se l’imbarazzo di essere stato, in quell’epoca, un devoto al credo e alla pratica di “Potere operaio” poteva essere insuperabile.
Ed è poi lo stesso Bettiza, in quegli anni, a intervenire a sciabolate contro i famosi romanzieri italiani che giudicano Arcipelago gulag di Aleksandr Solzenicyn l’opera di “uno scrittore anonimo”; “Un corrispondente di provincia scrive meglio”; “Solzenicyn è uno scrittore che non vale niente”. E’ lui, Ezo Bettiza, a rispondere a questa intellighenzia italiana, mentre tutti stanno zitti e muti.
E’ in questo clima culturale che Bettiza diventa inevitabilmente il “testimone democratico dell’anticomunismo”. E’ un testimone fastidioso, perché colto e bravo, perché ha una produzione di storia, cultura, politica, saggistica e persino di romanzi, imponente. Chi scrive guarda con affetto un elegante libretto, con dedica personale, edito da Longanesi nel 1970, Il diario di Mosca, scritto da Bettiza nel ricordo della sua lunga corrispondenza nella capitale sovietica.
Ma per elencare le opere di Bettiza, che tra qualche anno diventeranno bestseller, per i suoi giudizi profetici oltre che per la bellezza della prosa e la lucidità di analisi, ci vorrebbe un’intera pagina.
E’ per tutto questo, e per l’impegno politico che Bettiza assumerà a partire dal 1976, che il giornalista non diventa solo un “caso letterario”, come tanti se ne conoscono in Italia, ma diventa un autentico caso politico, quello di un grande scrittore “contro”, di un testimone anticomunista spesso astiosamente osteggiato e quasi messo ai margini dalla comunità intellettuale italiana dominante, conformista e tutta filocomunista. Quello che è capitato a Bettiza è in fondo capitato, in modo ancora più grave nel 1900, a personaggi del calibro di Willi Muenzenberg, e in parte anche ad Arthur Koestler.
Troppo intelligenti, troppo preparati e troppo informati, ex comunisti che hanno provato il comunismo sula loro pelle, quindi pericolosi, quindi da scaraventare nell’oblio o a volte nella “pattumiera della storia”, per usare le parole di Rodrigo di Castiglia, uno dei tanti pseudonimi di Palmiro Togliatti quando scriveva di politica culturale.
Nonostante la sue nettezza di posizioni, Bettiza non covava grandi risentimenti. Fu amico di Giancarlo Pajetta e lo difese in una delegazione europea quando Pajetta fu accusato, da postcomunisti sovietici che lui aveva attaccato, quasi gridando “Mi avete imbrogliato per una vita”.
Bettiza piuttosto non sopportava il postcomunismo dei saltimbanchi ipocriti, che avevano dimenticato tutto, che ci avevano messo anni a capire e a mutare lentamente opinione in modo opportunistico, spostando quasi la sinistra su posizioni da carnevale neoliberista.
Per tutto questo Bettiza resta e resterà un caso politico e non solo un caso letterario. Tutte le volte che arrivava e parlava, sembrava un personaggio uscito da un libro di Thomas Mann o da un film di Luchino Visconti. Metteva subito in imbarazzo, sopratutto gli smemorati e gli ipocriti, smascherando i vecchi farisei. Era stato un profeta troppo bravo, per questo Paese che va sempre in soccorso del vincitore.