La teoria dell’evoluzione naturale è un modello assai utile per comprendere lo sviluppo della politica italiana: lunghi periodi di stasi (caratterizzati da impercettibili mutamenti o riposizionamenti) e poi l’improvvisa emersione di novità sorprendenti e, per tanti versi, “rivoluzionarie”.
Così è accaduto per le leadership con l’avvento prima di un giovanissimo (ma arcigno) Craxi, poi dell’imprenditore (imprevisto) Berlusconi, quindi, del cattolico (rottamatore) Renzi. E così è accaduto anche per le formule di governo: dapprima la solidarietà nazionale, successivamente il pentapartito, per giungere, sull’onda del maggioritario, al bipolarismo.
Novità che hanno profondamente segnato la politica italiana la quale, con il “caso Sicilia”, sembra trovarsi ad un nuovo bivio evolutivo.
Ma cos’è il “caso Sicilia”? Una novità? Per tanti versi no, come non sembrava esserlo la comparsa sul proscenio naturale dell’uomo Sapiens Sapiens: all’apparenza uno scimmione come i precedenti ma dotato di una peculiarità invisibile, il cervello.
Il caso Sicilia è tutto questo: apparentemente la tipica, schizofrenica ricerca di equilibri elettorali nella quale però si insinua una novità dirompente: lo strappo vero (e, forse, definitivo) tra il Pd di Renzi e la sinistra.
Fino alle scorse amministrative (Lucca ne è stata esempio lampante) l’attak politico tra Pd ed i bersaniani aveva, bene o male, funzionato rendendo — di fatto — la scissione impercettibile o, semplicemente, molto poco “traumatica”.
In Sicilia invece è successo l’irreparabile: i due Pd, quello di Renzi e quello di Bersani-D’Alema, si sono individuati come alternativi, estranei ed antagonisti, scavando tra loro un fossato destinato a segnare le prossime elezioni politiche.
Se a Roma si era consumata una separazione, in Sicilia si è celebrato il divorzio! Grazie anche all’opera certosina ma assai incisiva dei centristi (non a caso nel mirino dei bersaniani oggi non c’è più Renzi ma Alfano).
Cosa significa tutto questo? Che Renzi, rompendo drasticamente e profondamente con la sinistra, si è reso libero — a Roma — per tutti gli scenari post-voto.
Rifiutando la morsa ideologica (non solo interna ma anche di coalizione) Renzi ha posto le basi per un maxi-listone, “il Polo del Buonsenso”, alla Camera (Pd, centristi, Ala, Autonomisti, Crocetta, ex Udc alla De Mita, Leoluca Orlando, e forse Pisapia) che gli permetterà di sfidare — con buonissime possibilità di vittoria — i 5 Stelle, convinto (complice il niet di Salvini ad ogni ipotesi di listone a destra) di poter confermare il Pd prima forza politica del Paese riservando al segretario “l’ingrato” compito di dare le carte al tavolo del prossimo governo.
Ma non basta. La Sicilia ha regolato anche i conti a destra consigliando a Berlusconi (“padrone assoluto” — a differenza di Renzi — del proprio partito) di rinviare a dopo il voto nazionale lo strappo con la Lega (da cui lo divide tutto, persino la questione dei vaccini) sfruttando, in Sicilia ed eventualmente al Senato, la forza elettorale della coalizione per poi salutare il padan Salvini e divenire — con FI — l’interlocutore privilegiato (se non obbligato) nella formazione del nuovo governo.
In Sicilia, tra vari travagli ma con sufficiente chiarezza, si stanno precisando le condizioni (ed è questa la cifra politica dell’estate 2017) per una nuova risistemazione del quadro politico italiano con il definitivo superamento del bipolarismo (impossibile senza la frattura a sinistra) e la creazione di quattro aree politiche ben identificabili ed omogenee: una di sinistra (Mdp, Rc, Civati, eccetera), una di destra (Lega, FdI), una di contestazione (5 Stelle) ed una — maggioritaria — moderata (Pd, centristi, FI) su cui graverà, da prassi democratica e senza grida d’inciucio, la responsabilità dell’esecutivo.
L’evoluzione politica dell’Italia sembra transitare nuovamente per il Centro, come accadde, tra macerie e grandi aspettative, nel secondo dopoguerra.