Il “quid” politico della settimana è indubbiamente l’accordo tra Matteo Renzi e Angelino Alfano per le regionali siciliane. Siccome sono considerate l’antipasto delle elezioni politiche, e siccome chi ben comincia è a metà dell’opera, il battage propagandistico fedele al segretario del Pd vende l’accordo siculo come una caparra del successo di primavera su scala nazionale. C’è chi si trastulla con poco. In realtà le carte sono ancora tutte da distribuire.
I sondaggi dicono che la scelta di Alfano è sostanzialmente ininfluente su scala nazionale. Di certo sposterà pacchetti di voti verso il ticket Pd-Ap formato dal renziano Fabrizio Micari e dall’alfaniano Giovanni La Via, europarlamentare che in realtà è un fedelissimo di Giuseppe Castiglione. Come Alfano presidia la Sicilia occidentale, Castiglione controlla quella orientale, compreso il Cara di Mineo. Quindi l’accoppiata si presenta agguerrita contro il blocco di centrodestra. Tuttavia mai come questa volta il voto siciliano appare sganciato dalle sorti politiche nazionali, dove il M5s resiste a distanza non eccessiva dal 30 per cento e dove il peso del partito di Alfano si va rarefacendo di giorno in giorno.
Il ministro degli Esteri va forte dalle sue parti, grazie al tradizionale controllo del territorio politico, ma altrove i consensi centristi sono in libera uscita. In Lombardia, in particolare, si attende solo il segnale di Maurizio Lupi per il “rompete le righe”. Alfano ormai è un cacicco locale, non più un leader nazionale; per sé ha ottenuto la garanzia di un seggio nel futuro Senato in quota Renzi. Per il resto, il partito sta evaporando.
Il campo di battaglia sono proprio i voti centristi. Gli stessi sondaggi che puniscono Area popolare assegnano a Pd e 5 Stelle tra il 26 e il 27 per cento mentre il centrodestra unito sarebbe attorno al 35. E qui si pongono altri interrogativi. Primo, se Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia sono davvero tornati una cosa unica. E, secondo, se sono talmente coesi da riuscire a formare una lista unica per puntare al bersaglio grosso, cioè la soglia del 40 per cento che consentirebbe di conquistare il premio di maggioranza per governare.
Qui le condizioni dipendono dalla legge elettorale. Se si andrà alle urne con il sistema attualmente in vigore, cioè i monconi del Porcellum rimasti dopo la potatura operata dalla Corte costituzionale, non c’è alternativa alla lista unica. In questo caso, la coalizione dovrà mostrare il volto più moderato perché i voti degli indecisi si conquistano al centro, non alle estreme. E Silvio Berlusconi è ancora considerato dagli elettori di centrodestra più affidabile di Matteo Salvini.
Ma sulla legge elettorale la maggioranza potrebbe tentare il blitz dopo l’approvazione della legge di bilancio. Un colpo di mano che si concretizzerebbe nel porre la fiducia su un decreto di riforma. Se si vuole accontentare il capo dello Stato che chiede una legge elettorale vera e non rimasugli dopo le sforbiciate della Consulta, ormai non c’è alternativa a un decreto con relativa fiducia. E in questo caso il Cavaliere avrebbe un piano B. Pare sia disposto a tollerare il sistema ipotizzato da Ettore Rosato, capogruppo del Pd alla Camera, ovvero un Mattarellum con qualche aggiustamento (con il Mattarellum Berlusconi ha vinto nel 1994 e nel 2001), in cambio di uno slittamento del voto il più avanti possibile. Ogni mese guadagnato è una possibilità in più per il leader azzurro di arrivare al voto ripulito e forse addirittura riabilitato. In qualsiasi caso, piano A o piano B, il Cav resterebbe al centro della partita. Il nuovo che avanza.