“Per me è un giorno di liberazione personale. Ho vissuto cinque anni di violenze”. Questa frase pronunciata alcuni giorni or sono a Palermo non è di uno dei numerosi siciliani che cinque anni fa non ha votato per Rosario Crocetta, e nemmeno di uno degli altrettanti numerosi siciliani che si sono pentiti di averlo votato. Incredibile a dirsi, sono proprio parole di Rosario Crocetta, che lo scorso 5 settembre ha convocato una conferenza stampa per comunicare ufficialmente la sua rinuncia a ricandidarsi alla guida della Sicilia.



La decisione è giunta dopo un “serrato confronto” con Matteo Renzi che è riuscito nella “incredibile impresa” di dimostrargli che le condizioni straordinarie e irripetibili che lo avevano portato a diventare cinque anni prima presidente dei siciliani non si sarebbero potute ricreare, e che forse era meglio per il suo bene, per quello della Sicilia e soprattutto per quello del Pd, scendere a più miti patti. E così è stato, suscitando in quasi tutti i siciliani quel sentimento di liberazione che invece lui ha voluto attribuire a sé stesso.



La conferenza stampa è stata occasione per l’ennesimo, forse ultimo, sfogo mediatico volto a dimostrare la giustezza delle sue scelte politiche e l’incomprensione di cui è stato circondato. Ha svelato così uno dei più grandi misteri del suo quinquennio: “Dopo i primi rimpasti – ha detto Crocetta – che mi furono imposti dalla politica, meditai di fare un passo indietro: mi volevo dimettere”. Peccato che né lui, né i novanta deputati dell’Assemblea regionale lo abbiano fatto. Sarebbero andati tutti anzitempo a casa, con grandissimo danno per loro e molto vantaggio per i siciliani. “Ho fatto denunce giuste, cacciato criminali dalla Regione, e alla fine il malaffare eravamo io e la Monterosso (il segretario generale rimasto al suo posto malgrado i numerosi processi a suo carico) – ha continuato –. Io forse ho dato fastidio perché venivo da una madre sarta ed ero solo un ex sindaco di Gela”.



E poi l’ultimo affondo: “Per tutto questo – ha concluso – mi sarei dovuto forse candidare, per fargliela pagare, perché io sono stato attaccato per aver rotto certi sistemi. Invece lascio a chi verrà dopo di me una situazione stabile: taglierà molti nastri di opere pubbliche, non avrà problemi di bilancio e troverà una Sicilia con il Pil in crescita”.

Ciò di cui i siciliani sono convinti è esattamente l’opposto e per averne una verifica empirica basta fare un veloce giro per gli uffici della Regione e parlare con i dipendenti regionali, coloro che forse più di altri hanno portato sulle proprie spalle e visto in presa diretta le conseguenze della sua rivoluzione sempre annunciata, più sui mass media che con gli atti di Governo, e mai realizzata.

La sensazione di liberazione è diffusa in tutti gli uffici e tutti commentano, forse con un po’ di cinismo, che “peggio di così non potrà andare in futuro”. Senza attribuire meriti o aspettative agli attuali candidati, tutti si augurano che “cambi l’aria, che si smetta di attribuire a noi le colpe di tutti, soprattutto quelle che non sono nostre, ma della politica”.

In verità questi cinque anni hanno prodotto un significativo, ma quasi invisibile cambiamento in quelli che fino a pochi anni fa, quelli di Cuffaro e Lombardo, erano ritenuti l’origine della maggiore causa del disastro dell’amministrazione della Sicilia: i suoi dipendenti. In questi anni sono sensibilmente diminuiti di numero e chi ha potuto ha lasciato quello che per settant’anni è stato il posto di lavoro più ambito di tutti i siciliani: la Regione. A fronte di questo esodo non vi è stato alcun ricambio generazionale: niente concorsi, niente nuove assunzioni. “Ci sono uffici – dicono a microfoni spenti – in cui il lavoro che forse per cinque dipendenti era poco, oggi viene fatto da uno o due, senza che alcuno si preoccupi di distribuire meglio risorse e energie”.

Chi ha già maturato l’anzianità per poter andare in pensione attende con ansia di abbandonare dopo tanti anni quell’agognato posto di lavoro da cui ha tratto certezze e prestigio. Gli altri, cioè i meno anziani e che quindi hanno ancora parecchi anni di lavoro davanti, sperano di poter riprendere a svolgere, magari con qualche motivazione in più, quello che in questi cinque anni hanno dovuto fare senza passione e con l’unica certezza dello stipendio a fine mese.

“Adesso ci sono le condizioni per poter cambiare”, sostengono tutti. Oggi ci sono anche tre candidati su cui poter fare un maggior affidamento. Basterà la vittoria di uno di loro? Certamente no, “perché – ammettono tutti – la ricostruzione richiederà più tempo dei cinque anni di distruzione da cui usciamo”, ma almeno ci sarà un punto fermo da cui partire. E poi, come sempre, anche in questo caso la responsabilità di tutti sarà di ciascuno. “La Sicilia sarà bellissima”, diceva Paolo Borsellino. Forse non tutti ci credono, ma tutti ci sperano.