C’è una sensazione strana in questa ripresa politica autunnale, che poi porta alla prova elettorale siciliana di novembre, al varo della legge di stabilità, o manovra o vecchia finanziaria come dir si voglia, e al successivo regolamento di conti con le elezioni politiche generali che, prima o poi, si dovrebbero tenere anche in Italia.
Non c’è dubbio che molte speranze, successive alla giubilazione di Silvio Berlusconi, nell’autunno del 2011, si sono rivelate inconsistenti. Gli anni del Cavaliere erano già stati una delusione di immobilismo e di faciloneria, che si sono alternati per 25 anni con altrettante delusioni di governi di sinistra, rissosi e instabili, con una durata breve, e con all’attivo neppure uno straccio di autentica riforma.
Provati dalla crisi e dalla nuova “dittatura” della finanza sulle scelte di politica economica (che quasi tutti avevano abbracciato con entusiasmo paracomico, anche a sinistra, all’inizio degli anni Novanta), alla fine del 2011 gli italiani sembravano carichi di speranza con l’arrivo di Monti e dell’ineffabile signora Fornero, accompagnati da un alone di insolita competenza e serietà.
Il risultato di quel governo tecnico, che ogni tanto qualcuno tenta di ricordare con toni positivi, è il trionfo per gli italiani della grande delusione d’inizio secolo, con la vera esplosione del debito pubblico (come si può vedere dai grafici che spesso vengono nascosti e che molti economisti, nazionali e internazionali, denunciano) che era già alto, con il definitivo impoverimento di alcune classi sociali, con una politica di austerità che affonda l’Italia nella recessione.
Da speranza a illusione si passa di nuovo ad altra delusione, prima con l’irrompere del comico pentastellato Grillo in politica e poi con il giovane sindaco di Firenze, che promette a mani basse e stravince le europee, ma poi, a forza di promettere e non riuscire a mantenere, perde referendum ed altre elezioni a rotta di collo, fino a uscire da Palazzo Chigi.
Ora c’è lo stand-by di un signore pacato, fin troppo misurato, che è contento dei risultati economici recenti, piuttosto controversi, ma che dice “non bastano”. Si nuove felpato Paolo Gentiloni, aspettando probabilmente che il risultato siciliano confermi le preferenze che si hanno nel Partito democratico per lui e non per Renzi.
Intanto si assiste a una serie di ricordi di “occasioni perdute”, di “alibi in costruzione” e di palesi “autocritiche” per quello che è stato fatto in questi venticinque anni, fino ad arrivare all’ultimo decennio cruciale. Certo, la storia ricorderà e ricostruirà dettagliatamente tutto, se ne avrà voglia, ma in questo momento, ancora concitato e confuso, si ricordano anche gli uomini e le donne che non sono potute andare in pensione per gli “aggiustamenti” della Fornero.
Perché, ci si chiede, ci sono tutti questi ripensamenti? Nei giorni scorsi, l’idolo delle folle del 1992, al secolo Antonio Di Pietro, detto “Tonino il congiuntivo”, ha spiegato per televisione, per stampa e per internet che non rinnega l’inchiesta. Ma ha aggiunto che “Mani pulite ha prodotto un vuoto: è da lì che sono cominciati i partiti personali a cominciare da me. Ma sono partiti che durano lo spazio di un mattino, io ne sono la prova vivente”.
Generoso, sincero oppure scafato il “Tonino nazionale”? Magari in previsione di quello che potrebbe avvenire tra un anno circa dopo che, a elezioni generali concluse, non ci sarà ancora una maggioranza di governo e magari perdurerà ancora l’incertezza e l’instabilità economica. Forse qualcuno sta pensando di mettere le mani avanti di fronte a una delusione finale c conclusiva? Di Pietro si accolla di una colpa storica, ma dimentica un comandamento fondamentale della politica: il vuoto non esiste, come nella fisica. Il problema è, a questo punto, dopo il vuoto che lui ha creato, chi lo riempie e in quale modo.
Non è finita la storia dei ricordi. Anche Giuliano Amato aveva già dichiarato che dopo la caduta della prima repubblica, non c’è stata la creazione di una nuova e competente classe dirigente. Ieri ha confidato al Corriere le angosce del 1992, come la necessità delle privatizzazioni del Credito Italiano e del Nuovo Pignone, che dovevano essere “simboliche per l’impatto sul debito”. I passaggi di Amato nell’intervista al Corriere sono veramente curiosi sia per le ammissioni sia per le omissioni. Innanzitutto perché quelle due privatizzazioni aprirono una stagione che sul debito non ebbe nessun impatto reale, ma fece soprattutto la fortuna di alcuni amici degli amici e delle banche d’affari anglo-americane, che dirigevano tutte le operazioni di privatizzazione, guadagnandosi un bel 6 per cento di provvigione. Poi Amato quasi sorvola, definendolo “male necessario”, quel “furto notturno” del 6 per mille sui conti correnti degli italiani (anche quello era già un impatto sul debito fatto ai primi di luglio?) e che Ciampi non voleva. Infine si guarda bene dal ricordare i rapporti tra il suo governo e la magistratura, che spadroneggiava persino sugli schermi televisivi. Non parliamo poi della liquidazione dell’Efim, che Amato nelle sue ricostruzioni non ricorda mai. Forse perché fu criticata aspramente per come era stata condotta, anche da vari organi internazionali di stampa. Insomma, quella privatizzazione l’ex premier la dimentica sempre.
Giuliano Amato rimugina, non si abbandona di certo all’autocritica, ammonisce e ricorda anche ” i mali necessari”. Sembra che dica: fate attenzione.
Ma il tutto, riportato da questi e altri protagonisti, non promette nulla di buono. E’ come se si assistesse in questo periodo alla vigilia di una partita politica in Italia e in altre parti del mondo, ma soprattutto di una partita economica e finanziaria che riguarda la vera ripresa o una perdurante recessione. Ed è proprio in queste vigilie che si assiste alla costruzione di alibi personali e anche collettivi per affrontare una svolta epocale che potrebbe riguardare anche le nostre istituzioni democratiche.
C’è del metodo antico in tutto questo rimuginare e potrebbe riguardare il futuro di tutte le forze politiche in Italia. Si badi bene: non è un caso che non si trovi un accordo a sinistra. Tutti i vecchi protagonisti della “grande svolta” democratica contro la corruzione si accusano a vicenda, per poter dare degli irresponsabili agli altri di questo fallimento che oscilla tra l’inizio di venticinque anni fa e il culmine di questi ultimi dieci anni.
Ma la “fabbrica” degli alibi e delle scuse anticipate in previsione di un ipotetico peggio non paga mai nella storia e forse, questa volta, neppure nella cronaca. C’è l’aria di un “tutti a casa” che alimenta solo una grande incertezza.