L’ultima botta Matteo Renzi l’ha dovuta incassare nientemeno che dal Papa. Quel richiamo alla prudenza e a commisurare l’accoglienza dei migranti ai numeri realisticamente possibili è parso a molti osservatori un chiaro apprezzamento nei confronti della stretta targata Gentiloni/Minniti, avvalorata per di più dalla conferma di un colloquio privato fra il pontefice e il premier avvenuto nelle scorse settimane. Un quasi endorsement vaticano che ha reso più facile al governo anche la frenata sullo jus soli, che ormai ben difficilmente vedrà la luce in questa legislatura. Questione, appunto, di prudenza che un capo del governo deve praticare per non mettere a repentaglio la propria maggioranza.
Grazie al prudente Gentiloni, quindi, ombre poco rassicuranti si allungano sempre di più sulla leadership renziana, sino a qualche mese fa saldissima e che ora comincia ad assomigliare a un gigante dai piedi d’argilla. La domanda chiave diventa quindi se davvero Renzi rischi di essere disarcionato.
A parlare senza peli sulla lingua per primo è stato il sempre loquace Michele Emiliano: “se perde sia in Sicilia, sia le politiche se ne torna a casa”, ha detto il governatore pugliese. Si tratta di una previsione sin troppo facile, perché il nodo è se potrebbe bastare una sola sconfitta per mettere Renzi al tappeto, non due.
Che il primo K.O. sia nelle cose è Renzi il primo ad ammetterlo nello stesso momento in cui derubrica a fatto puramente locale il voto siciliano del 5 novembre. Il leader Pd mente sapendo di mentire, tanto è vero che ha fatto di tutto per evitare che quella (probabile) sconfitta possa essere usata contro di lui: ha recuperato sia Crocetta che Alfano, e spera ancora di imbarcare pezzi dell’area alla sua sinistra. Se il rettore dell’Università di Palermo, Fabrizio Micari, uscirà con le ossa rotte dalla contesa, ai suoi detrattori Renzi rinfaccerà di aver seguito i loro desiderata, coalizzando tutto il coalizzabile.
È quello del rifiuto di fare coalizione uno dei punti più battuti dagli avversari interni, per ora ancora lontani fra loro: gli Emiliano, gli Orlando, i Franceschini. Renzi, quindi, potrebbe anche usare la sconfitta in Sicilia per dimostrare che cedere sul premio di coalizione nella legge elettorale non conviene al Pd, favorendo invece la destra. Il 6 novembre però, rischia di trovarsi assai più debole e con i vari tronconi dell’opposizione interna tentati dal saldarsi per fare un colpo di mano. L’ago della bilancia potrebbe essere proprio Franceschini, che controlla un pacchetto di voti in grado di fare la differenza e già da alcune settimane si sta riposizionando sempre più vicino a Orlando. Niente può escludere poi che anche numerosi “renziani di convenienza” possano scendere dal carro del segretario.
La paura fa novanta, si sa. E di paura dalle parti di Largo del Nazareno se ne respira parecchia. Basti pensare che oggi il partito conta tra Camera e Senato quasi 400 parlamentari, destinati a scendere nella migliore delle ipotesi a meno di 300, stanti le attuali regole elettorali. La fase delle candidature si delinea all’orizzonte come un bagno di sangue, anche perché non è un mistero che il segretario sogni un ampio rinnovamento. Una prospettiva che in molti sarebbero felici dall’allontanare.
Del resto, l’alternativa a Renzi prende quota ogni giorno di più, e si chiama Gentiloni. Una figura rassicurante e pragmatica, che piace e sale negli indici di gradimento. Un punto di caduta che potrebbe rendere più facile un schieramento che comprenda Pisapia, Bersani, Alfano e Casini, proprio perché su di lui non scatterebbero gli stessi veti che sono piombo nelle ali di Renzi. E, nel caso che non si candidi subito, Gentiloni sarebbe anche una figura perfetta per guidare un’eventuale fase di grande coalizione (numeri permettendo) dopo il voto politico.
Per ora il premier si schermisce e mostra ogni volta che può la continuità fra il suo esecutivo e quello di Renzi. In realtà la discontinuità appare evidente in molti campi, dalla gestione dei migranti alle scelte di politica economica, grazie anche al vento di ripresa che soffia in Europa. I suoi migliori alleati sono infatti Marco Minniti e Carlo Calenda, apprezzati e rispettati anche in sede internazionale, al pari del presidente del Consiglio. Non a caso anche loro sono indicati come possibili protagonisti del dopo-Renzi.
Una prospettiva alternativa al renzismo comincia quindi a prendere forma. E il segretario democratico è sufficientemente avveduto per comprenderlo. Di certo cercherà di prendere le sue contromisure, per evitare l’accerchiamento. Errore capitale sarebbe infatti sottovalutare l’insidia. Il rischio per lui di essere messo da parte dopo le elezioni siciliane è più concreto di quanto non si possa immaginare.