Nella storia della Repubblica italiana, raramente si è assistito a un immobilismo così irritante e a una sorta di “grande imbroglio” come quello che è avvenuto dopo il 4 dicembre 2016, data del referendum istituzionale perso in modo sconvolgente dalla leadership nuovista di Matteo Renzi.
In questi mesi e in questi giorni sembra di assistere a una sorta di romanzo alla Raymond Chandler, dove l’atmosfera è pesante e fastidiosa, le incognite e gli interrogativi si moltiplicano, ma nessuno vuole fare la parte del disincantato-determinato detective Philip Marlowe.
Il motivo di questa carenza è l’arretramento, la scomparsa, la rinuncia ormai endemica di questa classe politica e l’allineamento patetico dei media a questo putiferio programmato, a questa triste vicenda storica che dobbiamo vivere.
All’ombra di una incerta ripresa economica (anche se con qualche numero positivo) con indici contraddittori, dove si parla con troppa facilità di “balzi” quando prevale il lavoro precario, quando c’è una disoccupazione giovanile a valori da tragedia, quando le diseguaglianze sociali sono sempre intollerabili e persistono sacche di popolazione in miseria, la crisi della politica è diventata drammatica, in tante parti del mondo certo, ma particolarmente in Italia.
Ci si guarda bene dall’andare a risolvere i nodi strutturali della grande recessione, ma ci si diverte a litigare e a distinguersi. Per avere parte in un Parlamento frantumato, magari con una vittoria relativa senza senso, ci si diverte quasi a prendere in giro l’elettorato, a costruire appunto un grande imbroglio.
Di fronte alle sceneggiate che stanno avvenendo a sinistra, nel centrosinistra o nel “campo progressista” o nella sinistra-sinistra (ce ne è per tutti gusti), c’è da rimpiangere persino i “governi balneari” della prima repubblica, dove ci si fermava a ragionare, a prendere tempo, a decantare le situazioni critiche per poi varare una nuova o una rinnovata coalizione di governo che aveva fallito.
L’ultima sceneggiata di questi tempi avventurati viene dalla frattura che si è creata nel governo, proiezione perfetta della frattura nel Partito democratico. Da una parte il ministro Graziano Delrio, in nome del suo mentore Renzi, attacca, indirettamente ma di fatto, Paolo Gentiloni e probabilmente, di sponda, anche lo scalpitante Marco Minniti, il ministro definito da un’icona culturale di sinistra come Gino Strada (ma non solo da lui) uno “sbirro”, un uomo che ha una storia politica da “sbirro”.
Guarda caso, a ben vedere, Gentiloni e Minniti sono proprio gli uomini che possono fare ombra a Matteo Renzi in una ricandidatura a Palazzo Chigi per conto del Pd, che avrebbe dovuto essere l’asse portante della seconda (o terza o quarta) repubblica. E invece sembra di assistere a un suicidio collettivo, a un gioco al massacro, dove si arriva facilmente anche alla parola “sbirro” per insultare un avversario politico e a sponsorizzare Gino Strada.
Uno dei passaggi del grande imbroglio è la legge sullo “ius soli”, a cui il governo avrebbe rinunciato perché andrebbe sotto al Senato. Del Rio ha sentenziato: “Il dietrofront è stato un atto di grave paura”.
A questo punto che cosa si fa, si ricorre alla fiducia? Si fidano in pochi, nonostante gli “impegni” di Gentiloni, le raccomandazioni “galleggianti” del presidente del Pd, Matteo Orfini, e altre dichiarazioni tutte scomposte che attraversano questa panorama frastagliato di sinistra.
Ma in fondo lo ius soli è appunto solo un passaggio, forse l’ultimo, delle manfrine per tirare avanti fino alle elezioni. Si pensi che manca ancora la legge elettorale e c’è addirittura chi sostiene che alla fine a decidere su come si andrà a votare sarà la Corte costituzionale, una “delega” che in nessun Paese democratico qualcuno potrebbe immaginare.
Ma questa è l’Italia uscita dal “manipulitismo” del 1992. Si pensi che in realtà ci sono ben 94 leggi a metà del guado (dallo ius soli alla legittima difesa, per fare qualche esempio) come si dice in gergo, e mancano solo sei mesi per arrivare all’appuntamento elettorale, passando per Natale e Capodanno. C’è addirittura l’impegno di istituire la promessa commissione di inchiesta sulle banche, che non può raggiungere alcun risultato (se non qualche obiettivo poco chiaro), proprio perché tra sei mesi finisce la legislatura e una simile commissione ha tempi che non possono essere inferiori, in un primo passaggio, almeno a sei mesi.
Poi ci sono le regionali siciliane, che Renzi ha definito una consultazione locale, beccandosi del cretino o quasi da Massimo D’Alema. E il risultato della Sicilia quanto peserà negli equilibri di potere del Pd?
In realtà, il grande imbroglio è il frutto non solo della mancata vittoria al referendum del dicembre di ormai un anno fa, ma alla battaglia per la leadership all’interno del centrosinistra e al palleggio di responsabilità che esiste sulle origini e sulla natura della crisi economica tra le varie anime della sinistra.
E’ questo che ha fatto trascinare la situazione, sapendo che alla fine i tempi sarebbero scaduti. Si è quindi preferito schivare “scientificamente” la verità, portando a una lotta senza esclusioni di colpi per giocarsi i posti di potere all’interno del Pd soprattutto e poi del governo.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: immobilismo e una paura, un’incertezza che viene percepita da un italiano su due, secondo i dati di un recente sondaggio. E in più una colpa storica: quello di consegnare il Paese o al movimento di un comico o a un centrodestra sbilenco e reduce da un viaggio nella disgregazione o a un disinteresse, a un grande assenteismo dalla politica (e dalle urne) degli italiani.
C’è poi un’ulteriore considerazione da fare, rispetto a questa scelta che si può considerare irresponsabile.
Quello che accade politicamente in Italia è in fondo, in questo momento, figlio della scelta europea, della tecnocrazia europea (come ha descritto magnificamente Giulio Sapelli) con il discorso sulla stato dell’Unione del noto “biscazziere” lussemburghese Jean-Claude Junker.
Il tono è proprio quello di chi decide che le scelte si fanno fuori dai Parlamenti. Anche la nostra legge di stabilità pare che debba essere ratificata da un Parlamento quasi esautorato, oltre che diviso, senza le scelte necessarie per il Paese di una qualsivoglia politica economica, stando attenti a rispettare soprattutto i parametri dell’Unione europea. Quell’Unione che magari ci loda a parole e poi si dimentica del ruolo italiano nella tragedia dei migranti.
Nel grande imbroglio italiano c’è quindi anche un imbroglio europeo. A questo punto è necessario dirlo. Nella predica del presidente della Commissione ci sono considerazioni scontate, travisamenti e luoghi comuni e nemmeno una parola su quello che potrebbe accadere in Spagna tra quindici giorni, quando la Catalogna deciderà di andare al referendum per separarsi. Se n’è accorto Junker che potrebbe nascere un drammatico problema spagnolo? Una superficialità e forse un cinismo inquietante.