Mai così forte, mai così diviso. Emerge una frattura profonda nel centrodestra da questa domenica di metà settembre. Talmente ampia che potrebbe diventare definitiva, se qualcuno non provvederà in fretta a ricucire, aprendo lo spazio a scenari finora solo sussurrati nei corridoi dei palazzi romani.
Quello fra Salvini a Pontida e Berlusconi a Fiuggi è apparso un dialogo fra sordi. Il leader di Forza Italia ha mostrato chiaramente che non ha alcuna intenzione di incoronare un successore, poiché spererà sino all’ultimo in una piena riabilitazione da parte della Corte Europea dei diritti umani. Strada sbarrata quindi al numero uno del Carroccio che dallo storico pratone lancia alla Rovazzi il suo grido: “andiamo a governare”, candidando se stesso a premier.
Due galli nello stesso pollaio non possono però che combinare disastri. Nel caso di Salvini il patatrac potrebbe essere rappresentato dall’addio di Umberto Bossi alla Lega. Escluso per la prima volta dalla scaletta degli interventi nel raduno da lui stesso inventato, il Senatur ha mormorato che si tratta di un segnale che lui se ne deve andare. Per lui Salvini è da tempo un “traditore della causa del Nord”.
Nel Carroccio l’addio di Bossi potrebbe provocare un mezzo terremoto. Metterebbe di fronte a un difficile bivio, ad esempio, Roberto Maroni, uno dei pochissimi a esprimere solidarietà al vecchio capo, ma a margine del raduno, non dal palco. Al contrario, il “ribelle” in casa Forza Italia è Giovanni Toti, che —applauditissimo — ha preferito il palco di Pontida a quello di Fiuggi.
Il fatto è che sul pratone bergamasco si è compiuta la mutazione genetica del Carroccio. Il colpo d’occhio era impressionante: vedeva una netta prevalenza delle bandiere bianche e blu della costola centromeridionale “Noi con Salvini” rispetto agli storici vessilli con il sole delle Alpi, o la croce rossa in campo bianco della Lega Lombarda. La Lega targata Matteo è quindi sempre più un partito personale che si candida a un ruolo nazionale, non più territoriale. E il leader lo manifesta scandendo: “Dalle Alpi alla Sicilia, riprendiamo in mano il nostro paese”. A qualcuno della vecchia guardia è venuto un colpo.
La ricetta salviniana è molto “law and order”: mano libera alla polizia, abolizione delle leggi Mancino e Fiano, Europa solo se cambiano radicalmente i trattati, stop immigrazione, prima gli italiani. Non è un caso che applauda persino Storace, di solito parco di complimenti verso il leader padano. Il fascismo — ha spiegato Salvini — è quello di chi vuol fermare la Lega con il pretesto dei soldi da restituire. No quindi alla mano tesa da Berlusconi, pronto (ancora una volta) a soccorrere l’alleato in difficoltà economiche.
Per l’ex premier poche parole: no a poltronari alla Alfano, no alla Turchia in Europa, meglio soli che male accompagnati. E dall’altra parte non si è certo risposto con carezze, o aperture: dal palco di Fiuggi Berlusconi ha rivendicato con orgoglio l’appartenenza alla famiglia del Partito Popolare Europeo, ricordando alla Lega che il collante del centrodestra sono sempre stati lui e Forza Italia.
Nessun passo né indietro, né di lato, quindi. E Salvini, sceso dal palco di Pontida, imbraccia il microfono di Radio Padania per ribattere: “A Berlusconi che dice ‘il centrodestra sono io’ rispondo che i leader li decidono gli elettori con il voto”.
In casa centrodestra, insomma, la tensione sta salendo così tanto da poter davvero sfociare in una rottura. Per ora la legge elettorale che non prevede coalizioni aiuta a tenere coperte le rispettive intenzioni, su cui volano accuse incrociate. Salvini (con Meloni a ruota) da tempo ammonisce Berlusconi a non immaginare alcuna riedizione del patto del Nazareno, alcun governo di larga coalizione con il Pd renziano. A escluderlo anche i numeri, visto che tutti i tentativi di proiettare in seggi i sondaggi certificano che Pd e Forza Italia non sarebbero in grado di raggiungere la maggioranza dei seggi — alla Camera almeno — neppure sommando ai loro i deputati di Alfano, Pisapia e Bersani, sempre ammesso che Ap, Mdp e Campo progressista superino il 3 per cento dei voti, necessari per entrare in parlamento.
L’unica aggregazione che ad oggi sembra in grado di superare la soglia della maggioranza assoluta dei seggi a Montecitorio è quella composta da 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia. Fantapolitica? Mica tanto. Le voci di un patto segreto Grillo-Salvini si sono rafforzate negli ultimi giorni. E un indizio della fondatezza qualcuno lo ha visto nell’indicazione dell’ex pm veneziano Carlo Nordio fra i possibili ministri. Un nome che entrava proprio in alcuni scenari sulla convergenza fra leghisti e pentastellati.
E se Berlusconi spara alzo zero contro Di Maio, Salvini usa toni meno aspri. Lo definisce “funghetto”, ma ne annota la conversione filo-leghista in materia d’immigrazione. Un indizio, non certo una prova, di un patto che — se esiste — si cercherà di tenere nascosto per i prossimi sei mesi. Se son rose, invece, fioriranno. Soprattutto se dovesse essere l’unica maggioranza numericamente possibile per scongiurare l’ingovernabilità e un immediato ritorno alle urne.