Si avvicina la resa dei conti nel Pd prevista all’indomani del voto siciliano del 5 novembre: andare avanti con la candidatura di Renzi a Palazzo Chigi (con il sostegno di Alfano) o ripiegare su una coalizione di stampo “ulivista” (con Giuliano Pisapia).

Il leader del Pd ha già messo le mani avanti a Palermo: non si era mai visto un segretario di partito presentare il proprio candidato alle elezioni locali mettendo in chiaro che la sua sconfitta non lo riguardava. In effetti gli ultimi sondaggi concordano nel prefigurare un testa a testa tra centro-destra e M5s con l’alleanza promossa dal Pd al terzo posto.



A ciò si aggiunge il referendum del 22 ottobre promosso dalla Lega in Lombardia contro cui si era espresso il Pd. Il candidato di Renzi per le regionali del 2018, Gori, ha rinunciato a contrastarlo e ha annunciato voto a favore di questo referendum che sarà la piattaforma elettorale del centro-destra, mentre nel Pd c’è chi vota contro e chi si astiene, con la segreteria regionale che ha gettato la spugna lasciando libertà di voto. 



Il dato di fatto è un Matteo Renzi sulla difensiva e gli oppositori di sinistra (interni e esterni al Pd) e di destra all’attacco. 

Da quando ha lasciato Palazzo Chigi, Matteo Renzi ha avuto come unica proposta politica le elezioni anticipate. E’ ormai quasi un anno che gira a vuoto: ha tentato di averle prima del G7, poi prima dell’estate (non curandosi di provocare una scissione), infine fissando anche la data del 24 settembre con l’approvazione della nuova legge elettorale senza rendersi conto che avrebbe automaticamente affossato l’accordo con M5s e Forza Italia: era evidente che Grillo voleva le elezioni siciliane prima delle politiche e che Berlusconi voleva prima la sentenza di Strasburgo.



In questa continua rincorsa allo scioglimento anticipato delle Camere il segretario del Pd sembra riempire il tempo più come star che come leader e cioè con tournée di presentazioni del suo libro, mentre il suo partito appare sempre più allo sbando tra litigiosità interna e improvvisazione politica (Renzi “esiliato” al Nazareno e Gentiloni a Palazzo Chigi a capo di — come si diceva all’epoca della Dc — un “governo amico”).

L’opposizione a Renzi ha così ripreso fiato. Dai ministri Delrio e Orlando a Prodi e Bersani lo ius soli viene ora usato per rieditare uno schieramento solidale di centro-sinistra tra Pd, Mdp e Campo progressista senza Renzi a Palazzo Chigi. E’ la reazione all’accordo tra Pd e Alfano per la Sicilia che prevede anche l’alleanza per il prossimo rinnovo delle Camere senza cambiare la legge elettorale. Il rilancio di questo testo di legge che giaceva indisturbato dal 15 ottobre 2015 nell’anticamera del Senato sta però già provocando effetti collaterali non da poco: rischia di minare il lavoro fatto da Mattarella con il governo Gentiloni-Minniti e di dare più spazio alla ripresa del centro-destra. 

Quando Renzi si era dimesso in dicembre sfidando il Parlamento (e il Quirinale) a governare senza di lui, Mattarella aveva prima rifiutato lo scioglimento anticipato delle Camere e poi nella formazione del nuovo governo era intervenuto per spostare Alfano (“promuovendolo” agli Esteri). Il mutamento della politica dell’immigrazione era necessario per recuperare il rapporto con l’Unione europea. Nell’affrontare l’emergenza migranti vi è stato quindi un ben diverso approccio rispetto a Renzi-Alfano (accordi con la Libia e regolamentazione delle Ong) e la situazione appare maggiormente sotto controllo; si è pertanto registrato un netto miglioramento con Bruxelles e la legge finanziaria (ora Def) non sarà “lacrime e sangue”.

Ma i fautori della rinascita del centro-sinistra di stampo “ulivista” considerano questa nuova politica sull’immigrazione come una svolta a destra e hanno scelto lo ius soli come casus belli. Gentiloni e Minniti sono corsi ai ripari impegnandosi nel portare il testo al voto a fine anno.

A fine legislatura, in pieno ingorgo legislativo al Senato, si agita come bandiera di identità e di battaglia prioritaria una legge che secondo tutti i sondaggi vede contraria la maggioranza degli italiani tanto che l’unico partito che l’aveva messa nel programma elettorale — il M5s — l’ha accantonata. 

E’ così che il centro-destra, pur litigioso e ammaccato, appare risuscitato e competitivo. 

Sul piano dell’iniziativa politica si vede infatti un Pd che rincorre: a) Salvini sull’autonomia regionale in Lombardia, b) i grillini per la legge sui vitalizi, c) gli scissionisti di Bersani sullo ius soli. Tutte “agende” altrui, manca un'”agenda” del Pd. In sostanza: il programma di Renzi è Renzi stesso (ritorno a Palazzo Chigi-poi si vede). Tutto è concentrato sugli effetti speciali della comunicazione.

Che in politica quel che conta sia l’effetto mediatico è convinzione diffusa soprattutto tra i giornalisti che si credono l'”ombelico del mondo”. Nei giorni scorsi su Rai Storia (nella formula rinnovata dai dirigenti di Renzi) è infatti andata in onda una puntata in cui si sosteneva che nel 1948 il generale Dwight Eisenhower avesse vinto le elezioni presidenziali grazie all’efficacia dei suoi spot e allo slogan “I like Ike”. Il fatto che — esplosa la “guerra fredda” e con Stalin che a colpi di Stato si impadroniva di mezza Europa — gli americani avessero preferito il generale dello sbarco in Normandia al candidato democratico, Adlai Stevenson, che evocava l’alleanza Usa-Urss non passava lontanamente per la testa.