Ci vuole davvero un coraggio da leoni per definire un successo delle primarie on line in cui ha votato appena un quarto degli aventi diritto. Ma i 5 Stelle non ammetteranno mai, neppure sotto tortura, che l’incoronazione di Luigi Di Maio a candidato premier sia stata un flop. Eppure è proprio così: non solo il sistema Rousseau ha rivelato più buchi del groviera, ma la base “certificata” si è rivelata lillipuziana rispetto al corpaccione di una formazione politica che continua a essere la prima d’Italia nei sondaggi. 



C’è di più, però. A Rimini è andata in scena anche la clamorosa rottura fra le due anime del movimento, i governativi capeggiati da Di Maio e i cosiddetti “ortodossi”, di Fico e Morra. Il tentativo di nascondere la polvere sotto il tappeto non ha avuto l’esito sperato, anche se lo stesso Fico si è immediatamente prodigato nello spiegare che l’idea di una scissione non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello. 



Il fatto è che la kermesse riminese ci consegna un Movimento 5 Stelle assolutamente differente da quello che abbiamo conosciuto sinora. Non più con Beppe Grillo in funzione di suprema Corte di Cassazione interna, ma un partito dove non vale più il principio base, quell'”uno vale uno” che è stato sbandierato sino a oggi: Grillo fa un passo di lato, e Di Maio diventa il nuovo capo in testa. 

Gli effetti di una simile mossa sono molto più interni, che esterni. In primo luogo perché Grillo rimane sullo sfondo, esattamente come aveva già fatto tempo fa, pronto a rientrare in campo in caso di problemi. Ma c’è anche da tenere in considerazione che l’investitura a candidato premier per il vicepresidente della Camera ha ben poche possibilità di diventare concreta, dal momento che questa figura sembra destinata a sparire, nel caso in cui la riforma della legge elettorale dovesse andare in porto, trasformando in legge la proposta del Rosatellum bis. In essa c’è il “capo della forza politica”, ma scompare il “candidato premier”, insieme al premio di maggioranza per chi sappia arrivare al 40 per cento. 



Di Maio, di conseguenza, è chiamato soprattutto a tradurre in voti veri i sondaggi, che continuano a dare l’M5s a quote stratosferiche, nonostante le scadenti prove amministrative dei sindaci pentastellati, in primi Virginia Raggi, che sfida il ridicolo nel dire che Roma sta migliorando. 

Davanti a sé ha una scelta cruciale: chi scegliere come avversario chiave e, di conseguenza, chi altro come vittima sacrificale, cui sottrarre i voti. Scelta tutt’altro che facile, dal momento che il nemico naturale sarebbe il Pd renziano e il bacino in cui pescare quello del centrodestra, se non fosse per i notevoli segni di vitalità che da quell’area politica vengono da diversi mesi. 

Di Maio colpisce nel segno quando spiega che i pentastellati non sono né di destra, né di sinistra, ma sono l’argine contro l’astensione. Nel passato certamente è stato così, ma difficilmente potrà esserlo anche in futuro. Va tenuto in considerazione, infatti, che l’elettore medio del M5S potrebbe farsi prendere dalla delusione, e rifluire verso il bacino dell’astensione. L’ambiguità sui grandi temi, infatti, non potrà continuare all’infinito. Si pensi alle giravolte in materia di immigrazione, che non potranno più essere praticate dal Movimento. 

La sfida non è facile, e le numerose gaffes degli ultimi mesi non aiutano certo Di Maio a partire con il piede giusto. E una corposa fetta del suo futuro si deciderà in Sicilia, nella sfida regionale del 5 novembre. Se i 5 Stelle riuscissero a scrollarsi di dosso l’etichetta degli eterni secondi, la sua leadership ne uscirebbe profondamente rafforzata. Se, al contrario, i sondaggi avessero ragione nel vedere prevalere il portabandiera del centrodestra Musumeci sul pentastellato Cancelleri, non si possono escludere problemi interni, perché Fico e i suoi avrebbero molte ragioni per rialzare la testa. 

Per Luigi Di Maio sarebbe quello il vero esame di maturità, perché la navigazione verso il voto di inizio primavera diventerebbe burrascosa. Niente però, rispetto a quello che potrebbe accadere dopo il passaggio elettorale, con la necessità di manovrare in campo aperto, e di abiurare al dogma del “nessuna alleanza con nessuno”. Sempre ammesso che Grillo e Casaleggio ritengano matura il tempo di giocare da protagonisti, magari stringendo i contatti che discretamente già si stanno sviluppando con la Lega di Salvini e con la destra della Meloni. Per il giovane Luigi sarebbe quello un autentico esame di laurea. Dovrà studiare davvero tanto per non farsi trovare impreparato.