Sappiamo tutti che Wikipedia è una cosa bella è utile. Aiuta chi vuole avere informazioni veloci e di base su qualunque cosa, dalla popolazione del Bhutan alla discografia di Neil Young. I problemi cominciano quando uno si interroga su qualcosa di più complesso della popolazione del Bhutan e della sua quota al Pil mondiale. Se si comincia ad interrogare Wikipedia sul concetto di natura naturans o sulla nozione di diritto umano si cominciano ad avere risposte un tantino meno attendibili e più problematiche. Ed è normale che sia così. Qui semmai il problema (che però non è un problema da poco) è quello dell’attendibilità e completezza dei dati proposti da Wikipedia i cui testi, come noto, sono forniti, controllati ed eventualmente riscritti dagli utenti, secondo il principio per cui, se non sei d’accordo, devi solo prenderti la briga di riscrivere e vedere l’effetto che fa.



Perché questa premessa su Wikipedia? Perché se si fa un esercizio di lettura insolito e si scorre il rapporto di Goldman Sachs del 22 agosto scorso sulla situazione istituzionale italiana si resta allibiti dal fatto che sulla base di considerazioni del genere non solo si possano spostare capitali, ma si possano giustificare politiche pubbliche chiamandole “valutazioni dei mercati” in quei salotti televisivi che vanno in onda appena dopo cena: quegli stessi mercati di cui Goldman Sachs è una parte rispettabilissima e tutt’altro che disprezzabile (nel senso, per capirci, che c’è di molto peggio e di più artigianale nelle valutazioni per gli investitori).



Nell’ordine si legge che in Italia non c’è una legge elettorale funzionante; che nessun partito dopo le elezioni avrà la maggioranza; che dovrà esserci un governo di coalizione (probabile un governo Pd-Berlusconi); che però le elezioni in Sicilia saranno importanti; e che comunque, nonostante la presenza di partiti euro critici (M5s e Lega), in Italia non saranno praticate politiche anti-euro o anti-Europa. Alla fine si tratta di valutazioni che qualunque dottorando di scienze politiche o di diritto costituzionale (di vecchia scuola) che legga regolarmente i giornali potrebbe scrivere. Purché sappia scrivere in un buon inglese. Ossia in quell’inglese veicolare che può essere speso da Helsinki a Taiwan.



Bisogna però ammettere che l’inglese (veicolare) e il marchio Goldman Sachs aggiungono qualcosa in più alle valutazioni del dottorando anglofono. E quel qualcosa in più è il fascino della tecnocrazia praticata, che è un po’ diversa da quella predicata con garbo e misura per lasciare un alone di mistero nel popolino. Al quale deve esser fatto capire di essere popolino e quindi, per definizione, ignorante. E quindi incapace di governarsi. 

Nella tecnocrazia predicata i mercati sono efficienti e razionali, conoscono scientificamente per decidere e, valutate le diverse opzioni, tracciano gli “scenari” per gli investitori. In quella praticata invece bastano solide banalità del genere, accompagnate da un marchio e qualche diagramma colorato per generare l’impressione che cose del genere escano da un qualche laboratorio di scienziati sociali in camice bianco i quali, con meravigliosi computer inaccessibili ai non iniziati, sfornano previsioni infallibili che guidano l’Investitore istituzionale nelle sue scelte. Previsioni attendibilissime, perché, si sa, se si spendono tanti soldi mica sarà per comprare chiacchiere. 

Ma c’è dell’altro — e di più interessante — nel rapporto Goldman sull’Italia. C’è, a seguire, un’intervista al prof. Giavazzi, editorialista del Corriere della Sera, da parte della curatrice del rapporto sulla situazione istituzionale dell’Italia di cui si è appena detto. La quale, a dimostrazione che quello dei “mercati” è un piccolo mondo, è stata autrice solo qualche anno fa, assieme ad Alberto Alesina, di un volume sulle virtù dell’austerità espansiva: quella cioè che vediamo all’opera tutti i giorni dal 2011 ad oggi.

Il bello è che ciò che Giavazzi anticipa ai fruitori del rapporto Goldman è poi quello che ha detto, con maggiori dettagli, nell’articolo sul Corriere del 17 agosto scorso: ossia che nelle trattative in corso tra Francia e Germania sulla ridefinizione delle regole di bilancio interne all’Unione (il famoso bilancio comune europeo) l’Italia rischia di essere il solito vaso di coccio. 

Giavazzi giustamente ricorda due cose. La prima è che nel 2011, ai tempi del “fate presto”, il debito pubblico italiano era assolutamente sostenibile e la crisi era una crisi indotta e pilotata dall’esterno con finalità esclusivamente politiche (rimuovere un governo il cui ministro delle Finanze aveva risposto — alla richiesta di soldi da mandare in Grecia perché, passati di lì, prendessero la strada di Germania e Francia — “conosco modi migliori per suicidarmi”. Ed infatti è stato suicidato). La seconda cosa che, tra le righe, ci ricorda Giavazzi è che l’Italia ha mandato almeno 10 miliardi in Grecia perché dalla Grecia andassero a coprire i buchi di quelle stesse banche tedesche e francesi che avevano — diciamo così — incautamente prestato al governo greco in tempi di credito allegro, lucrando un differenziale di interesse rispetto al Bund che adesso tocca (soprattutto a noi) ripagare. 

Lo strumento attraverso cui questa operazione di prelievo è stata compiuta è quel Meccanismo europeo di stabilità (Mes) a cui l’Italia ha deciso di partecipare nel 2012 e che le ha imposto di conferire a questo non meglio definito “veicolo finanziario”, immune da qualunque giurisdizione nazionale, 125 miliardi in cinque anni: cioè qualcosa come 25 miliardi all’anno. Il motore franco-tedesco, per capirci, ne mette 145 con la Francia e 190 con la Germania. E già questo dovrebbe essere preoccupante: con 20 miliardi in più in cinque anni (4 mld all’anno) di fatto la Francia comanda assieme alla Germania (e ai suoi satelliti del centroeuropa), mentre noi ci mettiamo i soldi e basta.

Ma preoccupazioni maggiori sorgono quando, negli stessi giorni, si legge che il bilancio comune voluto dai francesi dovrebbe essere concesso, dalla Germania, in cambio di una ridefinizione del trattato Mes. La formula proposta da Schäuble è quella della trasformazione del Mes in un Fmi europeo. E già questo, se si sa cos’ha fatto il Fmi in giro per il mondo, dovrebbe essere fonte di preoccupazione (chi ne volesse un’idea non limitata a Wikipedia può rileggersi J. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino 2002). La sostanza, dietro alla formula, è che le decisioni del Mes non dovrebbero più essere prese, salvo situazioni eccezionali, all’unanimità, ma a maggioranza. E quindi altri governi dovrebbero e potrebbero decidere della destinazione dei soldi dei contribuenti italiani, tedeschi, francesi etc. 

Già questa è un’idea spericolata in Germania, dove una sentenza del 2009 del Tribunale costituzionale (Lissabon-Urteil) ha stabilito che nessun onere può essere addossato al contribuente tedesco senza un voto espresso del Parlamento. E già mi vedo fioccare i ricorsi di cittadini e minoranze parlamentari contro una riforma di questo genere. Il punto però, per noi, è che, in caso di crisi, e come la vicenda greca del 2011 dimostra, i soldi si vanno a prendere dove ci sono. E purtroppo (o per fortuna) nei depositi bancari italiani di soldi ce ne sono ancora tanti. Molti di più che in altri paesi “virtuosi” del nord che impartiscono da anni lezioni di moralità politica a proprio uso e consumo. E’ l’effetto del modello economico italiano che è stato abbandonato nel 1992 e nel 2001: poche grandi imprese scarsamente capitalizzate ma diffusione capillare della ricchezza privata e della proprietà dell’abitazione. In una parola, quello che stava scritto nell’articolo 47 della nostra Costituzione.

Sicché dovremmo preoccuparci molto della piega che prenderanno i progetti del motore franco-tedesco una volta che la fase elettorale tedesca di questi giorni si sarà conclusa e il nuovo — si fa per dire — Governo federale potrà lavorare a pieno regime, magari con il sostegno di quei liberali che hanno fatto campagna elettorale lavorandosi la Merkel sul fianco della sua eccessiva sudditanza alle politiche di Draghi e della Bce a protezione — altro leitmotiv consolidato a Berlino e dintorni — delle cicale del Sud.

In fondo tra le banalità del rapporto Goldman Sachs si dà per scontato che in Italia non saranno praticate politiche eurocritiche. Il che, tradotto, significa che, come al solito, l’Italia, dopo le elezioni del 2018, andrà al traino di quello che decideranno gli altri, ed entrerà a piedi uniti — e mani legate — nella nuova struttura di bilancio europea che sarà decisa da francesi e tedeschi. La quale servirà, in sostanza, a drenare soldi dalla periferia alla zona core dell’Europa con la scusa di quel debito pubblico che, a seconda delle convenienze del momento, i mercati giudicano sostenibile o insostenibile in base a valutazioni del tipo che si leggono nel rapportino di cui sopra. O con la scusa dell’instabilità del sistema bancario nazionale.

Così stando le cose, pensate a quanto mi ha preoccupato leggere che, in questo stessi giorni, due figure non marginali sulla scena politica nazionale, e con stretti legami con l’Europa, come Romano Prodi e Vincenzo Visco, sono riapparsi in pubblico per proporre una ridefinizione del sistema fiscale che preveda un’imposizione complessiva sul patrimonio immobiliare di ciascuno, oltre, naturalmente, ad una ridefinizione dell’imposta di successione. 

Mi sono interrogato sulla scelta di tempo di questa iniziativa. Mi è venuto in mente che, in fondo, ci sono delle ricorrenze strutturali nella storia europea. E subito dopo, per rasserenarmi, sono andato su Wikipedia a cercarmi la voce sul sacco di Roma del  1527. E ho pensato che non solo l’Europa unita ci ha regalato settant’anni di pace, ma ha persino reso obsolete le alabarde. Perché in una fase in cui in Europa tutti si fanno scrupolosamente gli interessi loro (si veda alla voce Fincantieri o Telecom Italia), noi abbiamo una classe politica che si sente lungimirante a fare gli interessi degli altri.